RECENZIONE – Isgrò cancella. È il suo idioma concettuale, la sua visione dell’arte-vita che si esprime in una parola negata, fisicamente obliterata da macchie di colore, cancellature fisiche, evidenti. Questo il taglio delle sue opere, famose, questo il taglio di una evidente visione provocatoria e dissacrante ma che non si sgancia dal ‘sacro’ del linguaggio, in particolare il grafema, di cui forse non può far a meno. Il testo L’Odissea Cancellata è il frutto di questo metodo applicato a un autore (forse mai esistito) come Omero, Isgrò lo ha scritto nel 2003 ma va in scena per la prima volta in assoluto grazie alla rassegna Pompeii Theatrum Mundi 2024, diretto da Roberto Andò e diventa teatro con la regia di Giorgio Sangati .
Il risultato è e resta un’operazione concettuale, studiata, meditata ma anche forse un po’ lontana, poco empatica. Resta la sollecitazione intellettuale a non guardare le cose in un solo modo, ma andare oltre e non aver paura di osare altro. La forza del capovolgimento, che rende parola azione è il cuore di tutta la rappresentazione, il vero messaggio, che più che di eversivo sa di provocatorio. Il metodo di Isgrò, artista a tutto tondo è evidente: cancellare non vuol dire negare ma demitizzare, dubitare, dissacrare. Non è la storia di Omero è la storia di un capovolgimento di Omero, di una negazione affermata che non propone alternative se non le stesse cambiate di segno. E così Omero non esiste più, viene cancellato, ma al suo posto c’è Isgrò stesso, l’anti-autore che è a sua volta autore. Isgrò stesso è, infatti, parte dello spettacolo: un autore seduto in platea, che guarda osserva il dissolvimento della parola di Omero attraverso la sua parola. Attraverso la sua azione d’arte.
Capovolgimento è il senso
In questa logica è inevitabile uno stravolgimento anche dei luoghi fisici del teatro: la ‘scena antica’, il luogo fisico dove agiscono gli attori, viene capovolta e diventa platea di spettatori insieme con l’orchestra, mentre la ‘cavea’, con le sue sedute, accoglie viceversa gli attori e lo spettacolo, diventa la scena. In una Pompei, città cancellata dal Vesuvio, ma oggi non meno viva, nello spazio di un teatro cancellato che ritorna al suo antico uso si consuma il lento capovolgimento del senso e delle forme. Sguardi contemporanei che hanno la necessità dell’antico per proporre il nuovo. L’operazione concettuale è più interessante del risultato e culmina in uno spettacolo che non è solo teatro ma opera completa in cui l’arte, l’espressione artistica che nega fisicamente la parola fa da premessa al testo teatrale stesso.
La forza della parola
Se da una parte la parola greca di Omero, trascritta sulla cavea-scena viene progressivamente, fisicamente, costantemente cancellata durante lo spettacolo la forza della parola si lascia confondere da azioni e personaggi senza trama. Parola poetica, eversiva, è aperta a libera interpretazione del pubblico che però sembra troppo preso dalla ricerca del senso. Dei personaggi dell’Odissea, a cui siamo abituati, si cercano disperatamente i segni perché è di quella memoria comune che si vuole scoperchiare i limiti, e spingere a osare. Ulisse barbone, Luciano Roman, voce piegata in un corpo statico ma non immobile, circondato da nani che poi nani non sono. Un coro, rimando a uno sguardo attuale. Le donne di Ulisse sono il contrario di se stesse, volti caricaturali che fanno anche sorridere: Penelope, Francesca Fedeli, (che forse non fu la moglie di Ulisse) Circe, Eleonora Fardella, (l’amore adulto) e Nausica, Francesca Cercola, (una donna ‘di vita’ più che di amore). Polifemo Gianluigi Montagnaro, come un ‘Bambino scemo’ . Non è la completezza della rappresentazione, il senso complessivo delle azioni e dei discorsi, quanto la forza della parola colpisce tutti, più volte. Come forse ‘Nausica stravolta’ ci racconta : «Io sono una porcona, o Zeus, e mi piace/ prenderlo dove il sole, come dicono,/ forse non batte mai/ non sono io la mamma di Telemaco/ Non sono io la troia condannata/ a figliare per conto di pedofili». I miti si cancellano.
Se da una parte la parola greca di Omero, trascritta sulla cavea-scena viene progressivamente, fisicamente, costantemente cancellata durante lo spettacolo la forza della parola si lascia confondere da azioni e personaggi senza trama. Parola poetica, eversiva, è aperta a libera interpretazione del pubblico che però sembra troppo preso dalla ricerca del senso. Dei personaggi dell’Odissea, a cui siamo abituati, si cercano disperatamente i segni perché è di quella memoria comune che si vuole scoperchiare i limiti, e spingere a osare. Ulisse barbone, Luciano Roman, voce piegata in un corpo statico ma non immobile, circondato da nani che poi nani non sono. Un coro, rimando a uno sguardo attuale. Le donne di Ulisse sono il contrario di se stesse, volti caricaturali che fanno anche sorridere: Penelope, Francesca Fedeli, (che forse non fu la moglie di Ulisse) Circe, Eleonora Fardella, (l’amore adulto) e Nausica, Francesca Cercola, (una donna ‘di vita’ più che di amore). Polifemo Gianluigi Montagnaro, come un ‘Bambino scemo’ . Non è la completezza della rappresentazione, il senso complessivo delle azioni e dei discorsi, quanto la forza della parola colpisce tutti, più volte. Come forse ‘Nausica stravolta’ ci racconta : «Io sono una porcona, o Zeus, e mi piace/ prenderlo dove il sole, come dicono,/ forse non batte mai/ non sono io la mamma di Telemaco/ Non sono io la troia condannata/ a figliare per conto di pedofili». I miti si cancellano.
I personaggi, vestiti di parola poetica e anche straniante, perdono di forza nella loro fisicità della messa in scena. Rischiano di non essere compresi. Alla fine Omero sembra un pretesto intellettuale ma si parla di futuro sospeso, l’accartocciarsi del Pianeta, della vita-guerra vissuta da antieroi in una guerra a cui Ulisse non ha forse mai partecipato e fatta di figure solo immaginate. Le parole si negano, come l’opera di Isgrò, ma l’azione bloccata di una interpretazione attorica blocca il viaggio.
La fine è l’inizio
Un’ipotesi altrettanto provocatoria balena nella visione: e se il testo non avesse avuto bisogno di quella messa in scena? La carica eversiva della parola e dei suoi personaggi rischia di perdere vigore nella non azione o nell’azione abbozzata degli attori. Forse se fosse stato fatto solo di voce e dell’azione di cancellatura del testo greco che, come una tela di una Penelope-Omero, progressivamente procede ritmica durante tutto lo spettacolo?
Un’ipotesi altrettanto provocatoria balena nella visione: e se il testo non avesse avuto bisogno di quella messa in scena? La carica eversiva della parola e dei suoi personaggi rischia di perdere vigore nella non azione o nell’azione abbozzata degli attori. Forse se fosse stato fatto solo di voce e dell’azione di cancellatura del testo greco che, come una tela di una Penelope-Omero, progressivamente procede ritmica durante tutto lo spettacolo?
La catarsi finale è nel gesto artistico. In questo teatro che è figlio di un’opera d’artista e non di drammaturgo. Le parole progressivamente cancellate dalla cavea-scena, poesia dello spettacolo, si traducono in grosse cancellature colorate di blu, speranza. E diventano una nave, blu mare, ripartenza. Si riprende il viaggio, la nostra Odissea, ogni giorno. La fine dello spettacolo è il suo inizio. E un eco di questa visione è anche un’installazione che accoglie tutti i visitatori di Pompei all’ingresso dei quadriportici dei teatri, ricordando di non smettere mai e comunque di viaggiare.