RECENSIONE – Più che De Rerum natura (a cui è liberamente ispirato) è piuttosto il sottotitolo a dare l’idea dello spettacolo portato in scena in prima nazionale (27 giugno 2024) nel teatro antico di Pompei Scavi: De rerum natura [There is no planet B]. Si fa infatti riferimento chiaro alla frase-slogan che è stata utilizzata da movimenti ambientalisti e da Greta Thunberg che in effetti diventa un personaggio protagonista dello spettacolo prodotto dal Teatro di Napoli – teatro Nazionale.
Il tema trattato è, dunque, uno dei più antichi che va ad indagare il rapporto uomo-natura con uno sguardo decisamente contemporaneo. Composto in 6 ‘quadri’-racconti più che privilegiare (come forse il titolo lasciava intendere) un viaggio che vive nella relazione con la profondità di Lucrezio, utilizza le parole dello scrittore latino come pretesto, uno sfondo che si perde nel trambusto della parole contemporanee, nella serie di discorsi, fin troppo didascalici, sulla violenza dell’uomo sulla natura. La forza dei temi, veri, attuali, diventa dimensione retorica. Così per il racconto degli alberi tagliati che rappresenta un quadro-denuncia di come ci comportiamo, del caporalato su un extracomunitario ( ben rappresentato da Wael Habib), dell’orso polare-mamma e la sua storia tragica (ben espressa nella bella voce di Aida Talliente, che interpreta anche la Natura) che colpisce anche per il bel costume realizzato dalla costumista Daniela Salernitano. Così accade per la bambina- futuro, Greta, che guarda il disastro incipiente e il senso di mancanza di acquisizione di responsabilità delle persone. Greta però da sincera e giovane voce, esempio di un futuro di cui i più giovani vogliono essere protagonisti, diventa icona di un coraggio di parole che rischiano di diventare pomposo slogan. E sebbene in scena si aggirino delle figure femminili di particolare intensità dal linguaggio lucreziano ( come la Natura vestite in nero, o un corpo nudo di donna-natura) l’effetto sembra piuttosto ridondante. L’operazione dalla chiara intenzione provocatoria, che scomoda Lucrezio, la passione per la natura, la penna di Fabio Pisano, l’ideazione di Davide Iodice non riesce nel suo intento perché forse manca di un ingrediente che forse è troppo nascosto dietro un obiettivo, se pure complesso e articolato, formativo: la poesia.
Anche i commenti degli spettatori sono stati piuttosto forti in questo senso. Alcuni sostengono che fosse più una rappresentazione scolastica, più un laboratorio che un vero spettacolo, altri che fosse lungo e particolarmente noioso. Il tempo del racconto per quadri ha degli spunti interessanti nella scenografia e nei costumi, in un intenso modo di concepire l’azione e lo spazio. Elementi teatrali che sono ben fatti, come nella scena-dialogo del lavoratore pressato dal suo ‘caporale’, come nella scena dell’albero, una struttura affiscinante, che viene occupato da una giovane donna per impedirne il taglio, come nell’agire affannoso di chi vive la politica per interessi personali. Ma la ripetitività, la lunghezza di certe scene ne fa perdere la carica.
Un tema difficile da trattare senza cadere nell’avvertimento, nel monito moralistico. Come nel quadro in cui, su un fastidioso tappeto musicale fatto di un coro di percussioni realizzati da oggetti riciclati (Capone docet) la giovane donna non recita, proclama, urla retoricamente un incitamento alla nostra responsabilità, cadendo in un monito di cui tutti si sentono di condividere il messaggio di cui però non si sentono responsabili.
La ripetitività di quel ‘dobbiamo sapere’ rende proclama la poesia del vero, esalta in una visione che sembra troppo gridata per essere vera.
“Dobbiamo sapere che non c’è nessuno che possa sostituirsi a noi, che non c’è una macchina o un dio che opera oltre le nostre volontà,
dobbiamo sapere che non c’è un limite imposto alle possibilità.
dobbiamo sapere che la speranza non può essere un’attesa passiva
dobbiamo sapere che sperare vuol dire agire vuol dire fare qualcosa
dobbiamo sapere che la speranza non è soltanto una parola, non è soltanto una bella parola,speranza non è soltanto una parola dietro cui sperare.
Noi dobbiamo sapere che la speranza è corpo,
la speranza è gente,
la speranza sono le persone.
La speranza è ognuno di noi“.