Antonio Santucci per me era semplicemente Antonio ed io per lui ero Lisetta.
Ricorderò di lui l’uomo più che il fervente filologo, l’intellettuale e lo studioso, nonché il docente (che lui neppure si considerava) umile, accattivante ed inimitabile.
Sono passati già vent’anni da quando ci ha lasciato senza la sua intelligente ironia, la spassionata voglia di farci leggere la realtà in modo corretto, anche se giustamente di parte e senza quei suoi slanci fatti di politica vissuta, viaggi degni di nota e alta filosofia, spiegata in modo così semplice e disarmante che persino un operaio con la quinta elementare avrebbe capito il pensiero di Hegel e di Marx.
Ho tanti ricordi che mi legano a lui, che è giustamente ricordato come il più grande studioso di Gramsci, assieme a Gerratana, in Italia.
Nella rubrica del suo cellulare aveva il numero di Karl Popper ed io pendevo dalle sue labbra qualsiasi cosa dicesse.
Avevo 20 anni e lui 50, era Cavese, nato un anno prima di mio padre, ma l’età è davvero solo un dato anagrafico in certi casi.
Iniziavo il terzo anno all’ Università di Salerno e il biennio di sociologia non mi aveva assolutamente entusiasmato, nonostante fossi in regola con gli esami sostenuti; la politica già mi appassionava da tempo ed ero di sinistra.
Ero seduta in un’aula, era già buio a Fisciano ed eravamo in pochi ad aver scelto sociologia politica tra gli insegnamenti.
La mia carriera universitaria, il mio pensiero mutarono da quel giorno, radicalmente; Antonio era bellissimo, affascinante, tutte o quasi avevano un debole per lui, ma naturalmente il suo rigore e la sua serietà lo rendevano inarrivabile.
Entrò col Capitale di Marx sotto al braccio e, posandolo sulla cattedra, ci avvertì: questa è la mia Bibbia, il mio testo sacro.
Tutti capirono che quel prof. era diverso da ogni altro, unico nel suo genere, fonte inesauribile di cultura a cui bisognava attingere in massima parte.
Accanto a me era seduta una ragazza dai capelli lunghi e rossi, le lentiggini, gli occhi buoni e il sorriso rassicurante, me ne innamorai a prima vista, due colpi di fulmine nello stesso giorno, dopo due anni di apatia e studio scialbo, di aria fritta: ella era Manuela, che sarebbe poi diventata un punto di riferimento per me, assieme ai suoi familiari, per il resto della mia esistenza.
Antonio ci fece una lezione così bella di filosofia politica che le sue ore frontali volarono ed io non gli staccai un minuto gli occhi di dosso e alla fine lo attesi fuori dall’aula, con una scusa banale.
” Allora lei è nato a Cava? Io sono di Nocera Superiore! “.Come tutti i Cavesi, presuntuosi e fieri della loro città, mi disse che da Nocera le persone si recavano a Cava per fare lo struscio. I soliti Cavajuoli illusi, pensai.
Da quel momento non aspettavo altro che seguire le lezioni con lui, che era tanto avvincente nello spiegare anche questioni difficili quanto dissacrante, diverso da tutti, sconvolgente, uno di noi. Una volta stupí tutti affermando che Brooke Logan di Beautiful era una zoccolona.
Credo che tutte le studentesse e gli studenti di quel corso, che poi ovviamente biennalizzai e su cui costruii la mia tesi di laurea, fossero innamorati di Antonio Santucci. Diego Giannone, il suo assistente, era intelligente e d’animo nobile, riservato e mai invadente.
Antonio amava Vietri sul Mare e spesso andavamo in spiaggia, giù a Marina, al Risorgimento e anche lui, come me, ricordava il proprietario storico di quel lido, Cosimiello. Avrebbe voluto acquistare casa ma già agli inizi del 2000 i prezzi erano inaccessibili; possedeva un’auto, una Lantra, che scherzosamente chiamava lontra e fumava le Gauloises che a me non piacevano e lui quasi ne era irritato. Io fumavo le Marlboro lights, le stesse del suo amato Dylan, di cui conservava come una reliquia un pacchetto vuoto da cui Bob gli aveva scroccato una sigaretta in aeroporto una volta.
Antonio mi ha regalato tantissimi libri e li ho letti tutti, in particolare ho amato Jorge Amado, che lui aveva conosciuto.
Spesso a Cava ci vedevamo a casa del caro compagno Elio Venditti, prof di filosofia al mio liceo, e conduttore su Radio Rai di format bellissimi sul jazz, sul blues, sul rock…intenditore di musica buona. Ho imparato tanto da Antonio: una volta mi disse che per lui ero stata come Padre Pio, una specie di santa, in realtà devo più io a lui che viceversa.
Una volta, tra un single malt e un cognac, mentre ascoltavamo “Spirit In The Sky”, che lui adorava e definiva ridendo la canzone delle due volte (bisognava ascoltarla due volte, una non bastava dato che era un pezzone) mi disse che prima o poi avrei sposato un Cavese; era una sentenza, una sorta di bestemmia mandata.
Però tenne a precisare che sposarsi era l’errore più grande che si potesse compiere: scriveva dio con la d minuscola e riteneva che dopo la morte la condizione umana fosse la stessa del prenascita: il nulla.
Consigliava a tutti i laureati di trasferirsi da Roma in su per lavoro e mi parlava spesso della figlia di Valentino Gerratana, suo maestro ed immenso gramsciologo, finita a fare la postina, nonostante un padre di cotanto spessore intellettuale.
La sera prima della discussione di laurea mi regalò un segnalibro d’argento e si fece promettere che non avrei mai smesso di leggere.
Promessa mantenuta, Antonio caro!
All’epoca ero una studentessa di sociologia, un po’ hippie, vestivo in modo bizzarro ed eccentrico, mi piaceva sperimentare e scoprire cose nuove, senza farlo apposta, all’esame mi presentai con delle piume di struzzo rosa e lui ne rimase colpito e, ridendo, ne parlò nel Dipartimento, ma, quando lesse il primo capitolo della mia tesi, sulla Quistione meridionale di Gramsci, esclamo’ coi suoi colleghi; oh però Lisetta scrive bene.
Quello, detto da lui, resta il complimento più bello che mi abbiano mai fatto.
Ho tantissimi ricordi di lui e con lui che ovviamente mi guardo bene dal rendere pubblici, tanto sono preziosi e riservati, ma come diceva lui “anche per mandarsi a quel paese bisogna darsi del tu”.
Quando seppi che il melanoma che aveva era metastatico, sconvolta, corsi al G.B.Vico da Elio, che me lo confermò piangendo.
Io ed Antonio ci sentimmo fin quando lui riuscí a parlare, poi preferimmo eliminare la compassione inevitabile, lo strazio e le lacrime della fine.
Quando mori, a febbraio, ero a Salerno, a casa di una compagna in comune, non mi uscirono lacrime ma da quel momento mi son sentita orfana ancora prima di perdere papá, che già combatteva contro il cancro.
Quante volte Antonio mi aveva abbracciato mentre piangevo per il mio papà, ed ora, a distanza di un anno e mezzo dalla mia, nostra laurea, lui se ne andava per sempre.
Ero sola, avevo perso più di un maestro e tutti lo sapevano, senza farne parola, come si fa per le cose indescrivibili, come per i diamanti più rari che non vanno nemmeno sfiorati per non sciuparli.
Manuela andò ai suoi funerali, a Roma, dove viveva da anni, dopo brevi periodi nella sua Cava e a Napoli, che adorava: in una chiesa valdese si sentivano le canzoni del suo Dylan, altra bella ereditá che mi ha lasciato.
Non dimenticherò mai Like a Rolling Stone, sotto la pioggia: io una specie di Lolita, magrissima rispetto ad oggi, innamorata ed orgogliosa di essere la sua Lisetta, di trovarmi tra le sue braccia e tutto il mondo fuori.
Annalisa Capaldo