1. La povertà letta attraverso i dati di fonte istituzionale
La povertà oggi assume sempre più i tratti di un fenomeno poliedrico e dinamico. Ne esistono infatti molteplici definizioni a cui si associano (spesso) altrettanti indicatori o indici costruiti per misurarla. La si può definire in base al reddito oppure alla spesa delle famiglie, può essere intesa in termini unidimensionali
o multidimensionali, o ancora secondo un’accezione relativa (si è
poveri se si ha meno della media nazionale) o assoluta (si è poveri se non si ha il necessario per vivere). Se guardiamo alle fonti istituzionali, in Italia, le principali rilevazioni che producono dati a cadenza annuale sul fenomeno risultano due: l’indagine Istat/Eurostat su Reddito e Condizioni di vita, che diffonde i dati relativi al rischio povertà o esclusione sociale7 e alla grave deprivazione materiale e sociale costruiti per lo più a partire dai redditi delle famiglie; la rilevazione
Istat sulla Spesa per consumi delle famiglie da cui derivano i dati diffusi con regolarità su povertà assoluta e relativa, due indicatori che possono dirsi specifici del nostro Paese, perché prodotti solo in Italia.
Si tratta di metodi e approcci diversi che definiscono e misurano la povertà in modi differenti e che negli ultimi anni sembrano muoversi in direzioni contrarie; alcuni indicatori, infatti, ne descrivono dinamiche di miglioramento, altri al contrario evidenziano un inasprimento del fenomeno, soprattutto se analizzati in una prospettiva di lungo periodo. Ma vediamoli più da vicino.
In Italia le persone che vivono in una condizione di rischio povertà o esclusione sociale (indicatore AROPE) risultano 13milioni 391mila, pari al 22,8 della popolazione (il valore si attesta sopra la media europea pari al 21,4%). Vengono considerate a rischio povertà o esclusione sociale le persone che sperimentano
almeno una delle seguenti situazioni: vivono in famiglie a rischio
povertà, cioè hanno un reddito inferiore al sessanta per cento del reddito mediano nazionale; sperimentano condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, ad esempio non poter far fronte a spese impreviste, riscaldare l’abitazione, svolgere attività di svago con familiari o amici
Percentuale di persone che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana della distribuzione del reddito netto equivalente. Nel 2022 la soglia di povertà (calcolata
sui redditi del 2021) è pari a 11.155 euro annui (930 euro al mese per una famiglia di un componente adulto).
Percentuale di persone che registrano almeno sette segnali di deprivazione materiale e sociale su una lista di tredici (sette relativi alla famiglia e sei all’individuo): non poter sostenere spese impreviste; non potersi permettere una settimana di vacanza all’anno lontano da casa; essere in arretrato con nuclei a bassa intensità lavorativa, cioè famiglie dove i propri membri lavorano
meno di un quinto del loro tempo. Se si confrontano i tre indicatori europei, rispetto a un anno fa si nota un miglioramento
delle condizioni di rischio povertà (che passano da un’incidenza
del 20,1% a quella del 18,9%) e di bassa intensità lavorativa (da 9,8% a 8,9%); di contro si inasprisce leggermente la grave deprivazione materiale e sociale, la cui incidenza passa dal 4,5% al 4,7%. Se si allarga lo sguardo a un intervallo temporale più ampio, confrontando gli indicatori dal 2015 al 2023, il colpo d’occhio che ne esce è di un generale miglioramento di tutti i parametri Eurostat che sembrano indicare una riduzione delle condizioni di vulnerabilità e di disagio sociale. In particolare, colpisce il forte calo della quota di persone in stato di deprivazione materiale e sociale che, in questo tempo, scende di 7,4 punti percentuali12; segue poi la flessione delle situazioni di rischio povertà o esclusione sociale (-5,6 punti percentuali) e di quelle legate a condizioni di sottoccupazione (-2,3 punti percentuali). L’unico indicatore che in questi otto anni si è mantenuto su livelli pressoché stabili è la povertà relativa di reddito (con linea 60 per cento) rimasta costantemente prossima al venti per cento. La fotografia che si palesa è dunque quella di un Paese che in poco meno di un decennio ha di fatto visto arretrare le condizioni di vulnerabilità economico-sociali declinate sul fronte del reddito, del lavoro e il pagamento di bollette, affitto, mutuo o altri tipi di prestito; non potersi permettere un pasto adeguato
(carne, pesce, proteine equivalenti vegetariane) almeno una volta ogni due giorni; non poter scaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere un’automobile; non potersi permettere
di sostituire mobili danneggiati o fuori uso con altri in buono stato; non potersi permettere una connessione internet utilizzabile da casa; non poter sostituire abiti consumati con capi di abbigliamento
nuovi; non potersi permettere due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni; non potersi permettere di spendere quasi tutte le settimane una piccola somma di denaro per le proprie esigenze
personali; non potersi permettere di svolgere attività di svago fuoricasa a pagamento; non potersi permettere di incontrare familiari e/o amici per bere o mangiare insieme almeno una volta al mese.
Percentuali di persone che vivono in famiglie per le quali il rapporto fra il numero totale di mesi lavorati e il numero dei mesi teoricamente disponibili è inferiore a 0,20.
L’indicatore di grave deprivazione materiale e sociale è un parametro introdotto nel 2021 utilizzato per valutare il benessere delle persone, combinando aspetti di deprivazione materiale ad aspetti sociali e
relazionali. Fino a qualche anno fa veniva utilizzato l’indicatore della grave deprivazione materiale che si concentrava sui soli aspetti economici legati alle dimensioni essenziali della vita (cibo, riscaldamento, servizi essenziali); questo parametro poteva dirsi maggiormente sovrapponibile all’indicatore della povertà
assoluta elaborato dall’Istat. L’allargamento dello sguardo alla dimensione socio-relazionale ha reso il nuovo indice meno puntuale nella lettura del disagio economico-materiale, alla luce del fatto che
molti degli indicatori introdotti sono proprio di natura sociale.
1Sono noti in tal senso i limiti di tale indicatore di povertà relativa che rappresenta più un indicatore
di disuguaglianza che di povertà, oltre ad essere troppo sensibile alla congiuntura (o pro ciclico), con il rischio di far apparire la povertà in aumento quando il tenore di vita medio migliora e in
diminuzione quando viceversa peggiora della grave deprivazione. Dalla lettura di tali indicatori europei colpisce e stupisce
la quasi “invisibilità” della crisi pandemica che come è noto nel 2020 ha travolto l’economia italiana, impattando fortemente su produzione (-8,9% di Pil), occupazione, retribuzioni e reddito. Mettendo a confronto, infatti, i valori degli indicatori del pre-pandemia con quelli del 2020-20221 non si registrano
particolari scossoni. Se dai parametri europei costruiti per lo più sulla base del reddito, si passa a quelli costruiti a partire dai consumi e in particolare all’indicatore della povertà assoluta, la lettura che ne esce appare del tutto in controtendenza con quanto appena visto. In Italia vengono considerate povere in termini assoluti le persone
che hanno livelli di consumo inferiori a uno standard minimo ritenuto indispensabile per una vita dignitosa (per acquistare beni alimentari, accedere ai servizi essenziali, sostenere un’abitazione, ecc); tale parametro è differenziato per tipologia familiare, regione e ampiezza del comune di residenza e tiene conto chiaramente del tasso di inflazione. Ad esempio, è considerato povero un nucleo di due persone, di età compresa tra i 18 e i 59 anni e residente in un piccolo comune della Lombardia, se ha livelli di consumo inferiori a 1.343 euro; se la vita di quello stesso nucleo è proiettata in una grande città metropolitana della stessa regione la soglia sale a 1.602 euro. Guardando alla serie storica dei
dati sulla spesa delle famiglie si nota che in circa dieci anni il valore medio dei consumi familiari è passato da 2.519 euro (nel 2014) a 2.738 euro (2023) (registrando un +8,6%); l’incremento dei consumi si è fatto più consistente dopo il 2020 che ha segnato un record negativo a causa della crisi pandemica. Tuttavia, a fronte di una crescita della spesa non si è registrato un miglioramento
del tenore di vita degli italiani ma al contrario un suo peggioramento per effetto dell’inflazione (il 2022 si è chiuso con un +8,1% e il 2023 con un +5,7%): infatti, se la spesa media familiare ha registrato una crescita di circa l’otto per cento, in termini di spesa reale la flessione è stata del 10,5%. In questi anni, dunque, pur di fronte a un innalzamento dei consumi delle famiglie il tenore di vita è andato peggiorando. Questo ha riguardato le regioni del Nord più che quelle del Sud Italia; secondo i dati Istat la spesa reale media delle famiglie è diminuita negli ultimi dieci anni del 14 per cento nel Nord, dell’8 per cento nel Centro e del 3 per cento nel Mezzogiorno. Cala dunque il potere di acquisto delle famiglie e per questo sale la quota di persone che, pur spendendo di più, non riesce a soddisfare le esigenze essenziali quotidiane. Oggi in Italia vive in una condizione di povertà assoluta, quindi senza il minimo per vivere in modo dignitoso, il 9,7% della popolazione, praticamente una persona su dieci. Complessivamente si tratta di 5 milioni 694mila residenti, per un totale di oltre 2 milioni 217mila famiglie (l’8,4% dei
nuclei). Il dato, in leggero aumento rispetto al 2022 su base familiare e stabile sul piano individuale, risulta ancora il più alto della serie storica, non accennando a diminuire. Se si guarda infatti ai dati in un’ottica longitudinale, dal 2014 ad oggi la crescita è stata praticamente ininterrotta, raggiungendo picchi eccezionali dopo la pandemia. Il trend appare dunque del tutto in controtendenza rispetto agli indicatori su rischio povertà o esclusione sociale. In dieci anni l’incidenza della povertà assoluta in termini individuali è passata infatti dal 6,9% al 9,7% e sul piano familiare dal 6,2% all’8,4%. Se si pensa che prima della crisi economico-finanziaria del 2008, il dato individuale si attestava intorno al 3% si comprende come sia mutato in questo tempo il fenomeno della povertà, passato da marginale a elemento strutturale della società per effetto delle tante crisi globali attraversate: dal crollo di Lehman Brothers alla crisi del debito sovrano, dalla pandemia da Covid-19 alle guerre internazionali attuali che stanno impattando su inflazione, crescita economica e politiche monetarie.
Incidenza della povertà assoluta tra gli individui e le famiglie (valori %) -Anni 2014-2023 Fonte: Istat
Se si guarda ai dati macroregionali, si nota che così come il potere di acquisto è sceso maggiormente nelle regioni del Nord, anche la povertà assoluta ha registrato maggiori effetti proprio in quelle stesse aree. Dal 2014 al 2023 il numero di famiglie povere residenti al Nord è praticamente raddoppiato, passando da 506mila nuclei a quasi un milione (+97,2%); nel resto del Paese la crescita è stata molto più contenuta: +28,5% nelle aree del Centro e +12,1% in quelle del
Mezzogiorno Oggi in Italia il numero delle famiglie povere delle regioni del Nord (998mila) supera quello di Sud e Isole (859mila), mentre dieci anni fa i dati restituivano uno scenario del tutto diverso. L’incidenza percentuale continua a essere ancora più pronunciata nel Mezzogiorno (12,0% a fronte dell’8,9%) anche se la distanza appare molto assottigliata; nove anni fa la quota di poveri nelle aree
del Meridione era più che doppia rispetto al Nord: 9,6% contro il 4,2%. Sono dati che colpiscono anche perché in controtendenza con la distribuzione del reddito del Paese, con i dati sulla crescita economica e con l’occupazione. In tal senso, un elemento interpretativo che può essere richiamato è senza dubbio
quello della presenza straniera. Nelle regioni del Nord si concentra infatti quasi il sessanta per cento degli immigrati residenti in Italia (58,6%) e, come è noto, tra loro l’incidenza della povertà è decisamente più alta. Se si guarda all’evoluzione della povertà per cittadinanza il colpo d’occhio dello svantaggio
degli stranieri appare evidente, sia in termini di stock che di flusso (
tra le persone di cittadinanza non italiana risulta deprivato il 35,1% dei nuclei, contro il 6,3% di quelli italiani; in dieci anni gli stranieri hanno visto crescere l’incidenza della povertà di dieci punti percentuali, gli italiani di 1,5 punti. Un altro elemento chiave da sottolineare rispetto allo svantaggio del Settentrione
è poi quello delle misure di contrasto alla povertà, in particolare il
Reddito di cittadinanza in vigore dal 2019 fino al 2023 (anno a cui si riferiscono gli ultimi dati Istat), che di fatto ha avuto un maggiore impatto proprio nelle regioni meridionali (cfr. capitolo 5). In tal senso il Nord ha subito un doppio svantaggio; il primo sul fronte della cittadinanza, visto che gli stranieri residenti
in quelle aree hanno avuto difficoltà di accedere alla misura a causa del criterio dei dieci anni di residenza; il secondo legato al costo della vita, visto che le regole di calcolo del trasferimento erano le stesse su tutto il territorio nazionale e dunque il suo impatto reale è stato maggiore nelle regioni dove il costo della vita era inferiore (quindi Sud e Isole).
Altri record negativi della povertà assoluta: minori e lavoratori poveri
Accanto alla questione “settentrionale”, un altro nodo da richiamare è quello della povertà minorile, che da tempo sollecita e preoccupa. L’incidenza della povertà assoluta tra i minori oggi è ai massimi storici, pari al 13,8%: si tratta del valore più alto della serie ricostruita da Istat (era 13,4% nel 2022) e di tutte
le altre fasce d’età. Lo svantaggio dei minori è da intendersi ormai come endemico nel nostro Paese visto che da oltre un decennio la povertà tende ad aumentare proprio al diminuire dell’età: più si è giovani e più è probabile che si sperimentino dunque condizioni di bisogno. Complessivamente si contano 1milione 295mila bambini poveri: quasi un indigente su quattro è dunque un minore. Le famiglie in povertà assoluta in cui sono presenti minori sono quasi 748mila, e rappresentano il 34% di tutte le famiglie in povertà assoluta. Lo sfavore delle famiglie con minori oggi come in passato tende ad aumentare al crescere del numero dei figli e nelle famiglie mono-genitoriali. Inoltre, come prevedibile, anche in questo caso la cittadinanza gioca un ruolo determinante:
l’incidenza della povertà tra le famiglie italiane con minori si attesta all’8,2%, mentre arriva al 41,4% per le famiglie composte unicamente da stranieri (quasi una famiglia su due). Preoccupa poi il dato sull’intensità della povertà: i nuclei dove sono presenti bambini appaiono i più poveri dei poveri avendo livelli di spesa molto inferiori alla soglia di povertà. In aggiunta alla povertà minorile, un altro elemento di allarme sociale che si coglie dagli ultimi dati Istat riguarda i lavoratori: continua infatti a crescere
in modo preoccupante la povertà tra coloro che possiedono un impiego. Complessivamente, la povertà tocca l’8% degli occupati (era il 7,7% nel 2022) anche se esistono marcate differenze in base alla categoria di lavoratori; se si ha una posizione da dirigente, quadro o impiegato l’incidenza si attesta al 2,8% (dal 2,6% del 2022), mentre balza al 16,5% (dal 14,7% del 2022) se si svolge un lavoro
da operaio o assimilato. Quest’ultimo, in particolare, è un dato che spaventa e sollecita, segno emblematico di una debolezza del lavoro che smette di essere fattore di tutela e di protezione sociale. Se si confronta l’incidenza della povertà di operai/assimilati e quella dei disoccupati lo scarto è di soli 4 punti percentuali (16,5 a fronte del 20,7%); erano 8,5 nel pre-pandemia (10,6% a fronte del
19,1%) (I dati del mercato del lavoro in Italia mostrano oggi luci e ombre. Nel 2023 il tasso di occupazione è salito di 2,4 punti percentuali rispetto al pre-pandemia attestandosi al 61,5% (la crescita in Italia è stata più marcata rispetto a Germania,
Francia e Spagna, anche se rimane complessivamente inferiore al tasso di occupazione di tali Paesi). In particolare, aumenta la quota dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, mentre scende quella degli occupati a tempo determinato e dei lavoratori autonomi. Rispetto al pre-pandemia cala anche il tasso di disoccupazione passato dal 9,9% (2019) al 7,7% (2023). A fronte di tali
trend positivi molto in chiaro scuro appare invece l’andamento delle retribuzioni, che in questi anni non hanno tenuto il passo dell’inflazione. Tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia sono aumentate complessivamente di circa il 16 per cento, un valore molto più basso rispetto alla media Eu27 (+30,8 per cento). Se si guarda poi ai salari reali il divario rispetto
alle altre grandi economie è ancora più ampio: l’Italia risulta l’unico Paese
in cui le retribuzioni reali risultano in calo dal 2013 (Graf. 7). Nel confronto con tale annualità, il potere di acquisto delle retribuzioni lorde è cresciuto nella media Ue27 del 3,0 per cento, menmentre in Italia è diminuito del 4,5. Se ci si sofferma sul solo ultimo biennio 2021-2023 caratterizzato da un’alta inflazione il calo
in termini reali è stato del -6,4%. A incidere sulle basse retribuzioni concorrono indubbiamente la contenuta intensità lavorativa e la ridotta durata dei contratti, con la diffusione di tipologie
contrattuali meno tutelate che penalizzano soprattutto donne, giovani e stranieri. In questo tempo, dunque, è come se l’occupazione nel nostro Paese si stesse polarizzando tra una fascia alta e garantita e una bassa poco tutelata, connotata al contrario da bassi salari, precarietà e part-time involontario
1-continua