L’essere umano è geneticamente egoista e la frase più emblematica è questa: non ci posso fare niente!
Falso! Non è vero, infatti, che non possiamo fare nulla, che non possiamo aiutare gli altri nei momenti difficili, che non abbiamo alcun mezzo per lenire, anche parzialmente, le sofferenze altrui.
La frase peggiore da dire a chi soffre resta la stessa: e cosa ci posso fare io? Equivale a dire: se la vita con te è stata così ingiusta, se il destino si è accanito sempre contro di te, se la cattiva sorte ti è compagna, non è certo colpa mia!
In questo denoto un egoismo smisurato e imperdonabile.
Dunque la mancanza di empatia e il pensare solo a se stessi è la dimostrazione più lampante che l’essere umano sia propenso a badare quasi solo ed esclusivamente al soddisfacimento dei propri piaceri. Sono pochi gli uomini e le donne realmente interessati al benessere non solo personale ma anche degli altri, e non parlo di estranei, bensì di familiari ed amici.
Chi sta male, fisicamente o moralmente, sa fin troppo bene che gli altri non possiedano la bacchetta magica per risolvere i problemi, ma c’è sempre un modo, una soluzione, sebbene palliativa, per rendere il male presente più tollerabile. È proprio nei momenti di crisi nera che ci si rende conto di quanto siamo soli e, raramente, di come ci si possa affidare piú ad un estraneo che ad un parente.
Il silenzio e l’indifferenza ammazzano gli animi e distruggono le relazioni: a nulla valgono i messaggi del buongiorno su What’s up o gli auguri nelle feste comandate se nel quotidiano non si cerca un modo di aiutare chi soffre.
La cosa peggiore è che ci si crede anche nel giusto, buoni cristiani, restando volutamente fuori dai pasticci, dalle grane altrui, facendo spallucce, perché quando sono stati male loro, noi dov’eravamo?
Così la catena dell’egoismo non si spezza e diventa sempre più lunga ed inossidabile e il rancore, la rabbia, l’odio crescono a dismisura fino a trasformarci in pietre e rami secchi.
Annalisa Capaldo