
Il sessismo è il filo invisibile che attraversa ogni classe, ogni gruppo, ogni ideologia. Mentre a destra si manifesta con la brutalità dell’aggressione, a sinistra trova il suo travestimento nel paternalismo benevolo, un atto di protezione che non protegge, ma opprime. È quest’ultimo che si è svelato, ancora una volta, con la difesa d’ufficio imbarazzata di Prodi, il quale, come un vecchio patriarca, si è preso la libertà di minimizzare ciò che doveva invece essere apertamente riconosciuto e affrontato.
Questa non è solo una questione di gesti o parole; è una struttura che ci lega, che limita la nostra libertà di essere pienamente. È l’accettazione culturale del sessismo, camaleontico e pervasivo, a renderlo interclassista, a insinuarlo nei discorsi tanto quanto nelle azioni. È l’idea che una tirata di orecchie sia poco più che un monello da redarguire, quando invece è una manifestazione di una mentalità che non ci rispetta, ma ci riduce.
Ma la lotta per l’uguaglianza non si farà mai con il silenzio. Non possiamo permettere che questo paternalismo sia accolto con una scrollata di spalle. È nostro dovere denunciare, smascherare e riscrivere il linguaggio che perpetua queste dinamiche. Perché la vera rivoluzione comincia nel linguaggio, nello smantellare ogni frase che ci relega in ruoli di subalternità.
A noi il compito di non accettare le catene dorate del paternalismo. A noi il compito di dire no, con fermezza, a ogni forma di sessismo. Perché senza libertà reale, senza uguaglianza autentica, non c’è progresso che tenga.