Il passo in italiano è un vero «scioglilinguagnolo», nelle parole di Joyce e Frank, e rimanda proprio al lavare i panni nelle acque d’un fiume non troppo limpido, ahimè: «Che sudiciume di camiciaccia! Guarda un po’, tutta l’acqua ne ho sporca. Bagno di qua, bagno di là, otto giorni di bucato. Quante mai volte l’avro ritorta! So ben io cosa quel macchiavuol. Lordo balordo! Mani arroste e trippe in fumo per mandar quei panni del diavolo in demonio pubblico. Sbatacchiali duro e falli netti. Ho i polsi stronchi a rimestolare la muffa. Com’è gangerenoso di turpida tabe! Ma che cozzo ha fotto…». Vi leggiamo in controluce, ma neanche tanto, il fiume Gange, e chissà che «ritorta» non rimandi pure ironicamente a Riotorto, paesino nei pressi di Piombino non colpevole («rio») del non avere un ruscello o rivolo («rio») a lambirlo.
L’ultima pubblicazione di Joyce è un testo in italiano, che appartiene alla nostra letteratura quanto a quella di tutto il mondo. S’intitola «I fiumi scorrono» e uscì nella rivista Prospettive nel dicembre del 1940, poche settimane prima che l’irlandese si spegnesse in un ospedale di Zurigo. Vi aveva lavorato assieme a Nino Frank, ma il nome di quest’ultimo non poteva uscire perché ebreo, e fu dunque rimpiazzato, nel fascicolo, da quello più rassicurante di Ettore Settanni.
QUANDO UN TEAM di traduttori avvicinò lo scrittore irlandese a Parigi per chiedere il permesso di tradurre il testo che via via andava componendo, nella loro lingua – il ceco – Joyce rispose: «Work in Progress (questo il titolo di lavoro del Finnegans prima della pubblicazione, ndr) non è scritto in inglese, in francese, in ceco o in irlandese. Anna Livia non parla nessuna di queste lingue, lei parla la lingua del fiume». In effetti, se c’è un libro di fiumi che è anche un libro-fiume quello è il Finnegans di James Joyce.
Si apre letteralmente con una parola-fiume, riverrun in cui scorrono mille significati: dal «corso del fiume» (definizione da dizionario), all’eterno errare (-err) in entrambi i sensi di vagare e sbagliare, da «a river runs out of Eden» in certe versioni della bibbia, al mone dalla protagonista (river + anne), dalle rive dei fiumi, al sognare o al fantasticare (rêver/rêverie), e tanto altro ancora. È una parola, quella, che potremmo a nostra volta stradurre con «riverrarno», se volessimo lavare i panni sporchi nel fiume di quella Firenze che fu tanto cara a Joyce da averla cantata attraverso un’ulteriore straduzione del nome di Dante Alighieri (nel Finnegans è un altro subdolo frequentatore di fiumi: «Denti Alligator»).
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STUDI RECENTI hanno evidenziato la presenza, nel capitolo di Anna Livia (l’ottavo del primo libro del Finnegans) di circa 800 fiumi. Nel tradurlo – si fa per dire – in italiano, Joyce e Frank ne hanno conservati tantissimi e cambiati molti altri. Ma da cosa nasce questa, chiamiamola, ossessione per i fiumi, che nel libro finiscono immancabilmente a morire nell’abbraccio del grande padre oceano (in Ulisse il mare era stato chiamato «la grande dolce madre»)?
Joyce visse sempre in città bagnate o attraversate da acque. Dublino, Trieste, Roma, Zurigo, Parigi. Nella capitale francese, in anni in cui provato e stanco, aveva bisogno di chi gli porgesse il braccio per sostenerne il cammino, si faceva portare sulle rive della Senna per sentire meglio la lingua del fiume.
IL FIUME DIVIENE, nella sua opera definitiva, sorgente di vita e di morte. Un eterno ricircolare, un andare avanti e indietro, proprio come la sua Liffey, il fiume che nasce dalle Wicklow mountains – a sud di Dublino – per attraversare la città dividendola letteralmente in due, e poi finire nell’Irish sea.
La prossimità, tuttavia, della foce rispetto al centro cittadino fa sì che, per dodici ore al giorno circa, le sue acque, viste da alcuni punti del lungofiume, sembrano andare al contrario, sembrano scorrere indietro verso la sorgente. Non è solo un’impressione ottica: è l’effetto delle maree, e dell’acqua salmastra che, collocandosi in superficie rispetto a quella dolce, rifluisce e dà il senso di un tempo che torna indietro.
PROBABILMENTE è proprio questo ad aver suggerito a Joyce l’immagine iniziale del libro, quella appunto del «fiume Anna» che scorre al contrario e subito supera «Eve and Adam’s», ossia Eva e Adamo, anziché Adamo ed Eva. In realtà, la spiegazione è, come sempre, più complessa. «Adam and Eve» è infatti una chiesa francescana che dà sul fiume, e che ha una storia strana. Era originariamente un pub, una taverna in cui, per le proibizioni inglesi nei confronti della religione cattolica, si dicevano messe clandestine. Il nome originale è rimasto, anche se la Chiesa oggi è consacrata all’Immacolata Concezione.
Da quelle prime righe, lo scorrere scrosciante dei fiumi d’Irlanda e dei fiumi di tutto il mondo non smette davvero mai nell’opera, e sicuramente gli elenchi debitamente stilati dagli annotatori avranno bisogno di essere aggiornati costantemente. Anche perché, in traduzione i fiumi si moltiplicano: ricordo quando con Fabio Pedone dovemmo tradurre il termine leasward che sta per leeward («sottovento») ma che incorpora per suono anche il fiume Lee della città di Cork; noi scegliemmo «sottobrento», aggiungendo il Brenta o la Brenta come dicono i locali al libro infinito di Joyce.
RESTA APERTA, però, la domanda di cui sopra. Perché quest’ossessione con i fiumi? Sono per Joyce fonte di vita (Liffey » life) ma vanno poi a morire nella grande distesa salata, disperdendosi e perdendosi. Sono dunque simbolo di vita e morte insieme. Una coincidenza degli opposti suggeritagli dal suo filosofo italiano prediletto, Giordano Bruno, che ha nel nome acquisito (si chiamava in realtà Filippo) proprio quello del fiume dei fiumi, il Giordano. Ma nel Finnegans la parola jordan sta anche per «vaso da notte», altra sede finale di acque scroscianti…
Nel libro precedente, l’Ulisse, i fiumi di Dublino, città di morte e di rinascita, sono quelli dell’Ade, ma è nel Finnegans che il grande mito da Joyce reinventato e riplasmato del fiume come anima del mondo emerge in superficie. Joyce crea letteralmente, nell’immaginario moderno, quel che oggi è l’Anna Liffey, fluidofiume donna, donna dea, le cui chiome sono un perenne incontro di acque.
È a questa donna ancestrale che vien lasciata l’ultima parola nel libro dei libri di Joyce – come in Ulisse era stata lasciata a Molly Bloom, figlia della luna (la madre si chiama Lunita) e padrona delle maree. E come in De gli eroici furori di Bruno, opera che Joyce portò sempre con sé nei suoi vari spostamenti. Anche lì l’ultima parola era lasciata a due donne, Giulia e Laodomia. Nel Finnegans è Anna Livia a cantare le ultime parole: parole di una vita morente e di una morte che sempre rinasce, nelle braccia del padre mare e nel ricircolo eterno degli elementi e delle anime.