
Mio padre soleva ripetere questa frase: “se passa Marzo, campo un altro anno” e, con il suo inconfondibile spirito umoristico, ha ben pensato di lasciarmi proprio il 31 di questo mese, fischiettando la nota canzone di Battisti, portandosi via per sempre la primavera.
Ho l’età giusta per comprendere quanto la vita sia spesso incomprensibile, ingiusta se vogliamo, e proprio ieri ne parlavo con un caro amico, tra un’osservazione sulla politica e qualche lacrima.
Ogni giorno la gente muore o si ammala gravemente e da un momento all’altro la propria vita cambia drasticamente facendoci scontrare con l’ineluttabilità del Fato, con il volere divino per chi si ostina a crederci, con lo scientifico depauperamento delle nostre cellule.
È qui che mi soffermo ed ancora una volta mi ritrovo a fare i conti con me stessa e con l’esistenza: a cosa serve fare cattiverie ed accapigliarsi per delle cose frivole al cospetto dell’imprevedibilitá del futuro?
Sento e leggo quotidianamente sciocchezze e bugie forzate, denoto un accanimento sterile verso avversari immaginari, appuro un egoismo turpe anche tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, prendo atto di sotterfugi ignobili per accaparrarsi prestigio ed applausi e all’improvviso tutto crolla.
Basta una diagnosi medica non prevista per demolire i sogni e le aspettative, per far crollare castelli dorati e fabbriche di schiavisti, affondano velieri e yacht milionari, finiscono matrimoni e rapporti pluriennali, come la vita, così, senza preavviso.
A questo punto chiedo a chi ne sa più di me: a cosa serve essere contro tutti e tutto se siamo sulla stessa barca, se ognuno di noi da un momento all’altro si ritrova a fare i conti con la disperazione e con l’ angoscia? Vale davvero la pena di provare cotanta rabbia ed accumulare siffatto odio?
Considerata la caducità del nostro percorso mondano oserei dire di no e mi tengo ben distante dal banale buonismo di taluni come dal chiacchiericcio infruttuoso di talaltri.
La mia è una mera considerazione sulla banalità del male e sulla pochezza di chi, anche solo a parole, deliberatamente, lo compie: in politica, come in famiglia, a scuola come in Chiesa, in ogni luogo di lavoro o di svago, basterebbe pensare che collaborare è sempre meglio che scontrarsi, umiliarsi, augurarsi il peggio, con l’umiltà di non sentirsi migliore del prossimo e la capacità di perdonare gli altri se si auspica anche il proprio perdono.
Quindi, invece, di pensare ad attaccarci e ad insultarci l’un l’altro, perché non prendersela per la buona di Dio e cambiare atteggiamento verso gli oppositori, che alla fine della fiera sono esattamente come noi e si dirigono comunque ai Campi Elisi?
Se passa Marzo, campo un altro anno, non per accumulare tempo e candeline, ma solo per cercare il buono anche laddove sembra assente, anche a costo di ricrederci su quel consigliere buono a nulla, quel docente incompetente, quel fratello distratto.
Prima di parlare o sparlare del comportamento e dell’operato altrui riflettiamo sul nostro modo di elargire il bene e restiamo in silenzio anziché dare fiato alla bocca senza apportare nulla di conveniente al resto del mondo.
Magari non otterremo quel posto privilegiato che pur meritavamo più di qualcun altro, ma di sicuro non avremo perso la dignità di essere umano e potremo continuare a camminare a testa alta.
La vita prima o poi il conto lo presenta a tutti e su questo non ci piove, le bare non hanno tasche e lo sa bene pure Berlusconi, gli onori e gli oneri dovranno pur essere commisurati e la giustizia, se è vero che esiste, fará il resto, in questa vita o nell’altra.
Annalisa Capaldo