
Stanotte la terra si è svegliata. Un rantolo poi un morso al buio e tutto si è piegato:
le pareti hanno fatto vedere le ossa, il pavimento si è mosso come un respiro, il sonno si è frantumato.
Infine, un silenzio che non era silenzio. Un vuoto denso, un attimo che si è dilatato e sembrava potesse ingoiare tutto il tempo. La sensazione che qualcosa di enorme si fosse appena spenta lasciando nell’aria un battito accelerato.
Non c’è difesa. Il terremoto è un pugno che ti trova sempre impreparato, ti scava dentro, ti lascia lì, a mani nude. Napoli sembra non avere più nulla di fermo.
Proprio in quei momenti io stavo scrivendo di vite interrotte. Le parole avevano un filo che tiravo da un terremoto antico, da morti che pesano ancora. Il passato era lì, lo stavo ricucendo sillaba dopo sillaba, con cura per quel suo tessuto sottile.
La terra all’improvviso ha iniziato a usare il suo lessico crudele, una scossa immediata. Come un taglio netto.
La terra mi ha guardata negli occhi e mi ha detto: “Non è lontano, è qui”.
Coincidenza, forse. O forse una memoria che si rinnova, per non essere dimenticata. Che si continua a muovere sotto la crosta delle nostre certezze.
Chi lo ha già sentito lo porta nella carne. Stessi tempi, stessi ritmi. Il battito inciampa, il fiato si ferma. Quel rombo è un’ombra che torna, un vento che sa di polvere e calcinacci.
Guardo la mia tazza di camomilla sul tavolo, trema ancora, il lampadario che oscilla come un pensiero sospeso. La casa respira, o forse no. Non so se è tutto, se la terra tace o aspetta, nascosta. Un altro colpo, più lieve.
Di nuovo la terra ha tremato. E siamo rimasti muti, con il cuore in bilico.
Quell’istante, quel soffio, ci ha visti, nudi, umani, ancora in piedi.