
C’è una mattina all’anno, a Sarno, in cui la città non si sveglia: si desta, come se qualcosa di antico e sacro la strappasse dal sonno per immergerla in un’altra dimensione del tempo. È il Venerdì Santo, ed è il giorno dei Paputi, figure bianche e silenziose che, attraversando le strade con lentezza rituale, danno forma visibile a un mistero: quello della morte e della resurrezione.
I paputi: i vecchi che diventano nuovi
Incappucciati, quasi sospesi tra i vivi e i morti, i paputi portano croci e canti, simboli e silenzi. L’etimologia del loro nome — dal latino pappus, “vecchio”, ma anche erba “senecione” — ci parla già di un passaggio, di un corpo che si fa tempo, radice, trasformazione. Il cappuccio, che copre la testa e cancella l’identità individuale, richiama antichi riti di iniziazione: è la morte dell’io profano per aprirsi a una rinascita sacra. Dietro quelle vesti bianche — bianche come il sudario, come la purezza ritrovata — non ci sono più uomini comuni, ma trapassati simbolici che si muovono tra le pieghe del visibile e dell’invisibile.
Il Venerdì del passaggio
Quello che si compie a Sarno non è solo una processione, è un racconto incarnato. Le Croci si muovono per ore, a partire dall’alba, seguite da cantori che si fermano davanti ai sepolcri, intonando melodie arcaiche e struggenti. È un ritmo antico, fatto di passi cadenzati, parole sommesse, gesti che si ripetono da generazioni. La città diventa teatro e pellegrinaggio, il dolore si fa rito, la memoria si fa carne.
Colori come simboli
Ogni confraternita si distingue per un dettaglio cromatico, e ogni colore è segno. Il bianco, dominante, è il colore di chi è presente ma invisibile, di chi è “già oltre” ma ancora tra noi. Il celeste, nel cingolo dell’Immacolata, è cielo e profondità, smarrimento e ritorno. Il viola, nella Croce dei Morti, è temperanza e connessione tra alto e basso, tra spirito e corpo. Poi c’è il rosso della confraternita di San Matteo: sangue, sacrificio, carne trafitta. Sono loro a salire la collina del Terravecchia, in un cammino a spirale che evoca il Golgota: ogni curva una stazione, ogni croce un’iniziazione. Lì, davanti alla Collegiata, il silenzio si fa vertigine.
La croce di Francesco: volto svelato
In mezzo a tutte le croci, una sola espone i volti dei paputi: quella di San Francesco, che non si nasconde. Il saio monacale, la carne mostrata, un’altra forma di verità. È l’umiltà che si fa visibile, la santità che non ha bisogno di maschere.
Tra antropologia e fede popolare
Osservare la processione dei paputi è un’esperienza liminale. È fede, ma è anche teatro sacro, rituale collettivo, psicodramma arcaico. In quelle cappe si nascondono secoli di simboli, dal mito alla penitenza, dall’iniziazione ai riti agrari. È il corpo della comunità che si mette in scena, rinnova se stesso, piange e spera.
Perché a Sarno, la resurrezione comincia dal basso: dalle strade, dai piedi che camminano, dai volti nascosti che cercano la luce.