“Non si ritorna indietro verso il mito, il mito lo si incontra di nuovo quando il tempo vacilla sin dalle fondamenta, sotto l’incubo di un pericolo estremo” scriveva Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle, intendendo specificare che il mito, affiorando nell’istante della catastrofe, svolge la funzione di tenere desta la coscienza e si fa aiuto-salvezza per l’uomo che intende ritrovare sé stesso.
Prendiamo ad esempio Enea e subito dell’eroe troiano ci ritornano alla mente i versi di Virgilio: “Su dunque, diletto padre salimi sul collo, ti sosterrò con le spalle, e il peso non mi sarà grave; dovunque cadranno le sorti, uno e comune sarà il pericolo, una per ambedue la salvezza” (II, 707-710). Quella immagine del padre sulle spalle e del figlio tenuto per mano ritorna spesso nella nostra vita, come ad assurgere a simbolo della condizione umana. Nel 1948 il poeta Giorgio Caproni scorge a Genova in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città, una settecentesca statua di Enea in fuga da Troia, col vecchio padre in spalla e il figlioletto accanto: nonostante l’artificio di quella scultura e lo sconcertato ammasso dei corpi, quell’apparizione assume produce nel poeta una commozione travolgente. “Enea che in spalla / un passato che crolla tenta invano / di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo / ch’è uno schianto di mura, per la mano / ha ancora così gracile un futuro / da non reggersi ritto”. Se Anchise è la tradizione ormai logora e Ascanio il futuro ancora incerto, Enea diventa lo specchio di una generazione che fatica ad uscire da una guerra che ha prodotto tante macerie e si trova alle prese con una difficile ricostruzione. In quel marmo di fuggiaschi Caproni riconosce tutti gli spaesati del secondo dopoguerra, ovvero tutti gli spaesamenti che l’uomo si trova a sopportare nell’aprirsi al nuovo tempo.
Nasce così il poemetto Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni, composto tra il 1954 e il 1955 e pubblicato nel 1956, da poco ripubblicato in occasione del trentennale della morte del poeta nel volume Il mio Enea curato da Filomena Giannotti con prefazione di Alessandro Fo e postfazione di Maurizio Bettini (Garzanti 2020, pp.256). Quell’Enea non è il guerriero protagonista di tanti scontri e neanche il conquistatore di nuove terre e il fondatore di un impero, ma una figura della contemporaneità che dice un uomo in difficoltà alle prese con l’imperativo di sfidare la sorte e sopravvivere, nello sforzo di rigenerare il mondo e rifondare l’avvenire: “Enea sono io, Enea siamo tutti”. Scrive Caproni: “Mai Enea fu tanto solo quanto nel momento di questa statua. E se nessun poeta (nemmeno il suo poeta Virgilio) se n’è accorto, è qui che converge tutto il fuoco della sua vera grandezza d’uomo, simbolo vivo e ancora incompreso di tutta l’umanità … simbolo, contrariamente alla tradizione classica, del punto di estrema solitudine raggiunto dall’uomo, e che tenta invano di salvare una tradizione morente e senza ancora potersi appoggiare a una sicura speranza, che invece deve sorreggere … un Enea, insomma, sola guida di se stesso e disperata guida di quelle (la tradizione: il padre; la speranza: il figlio) che dovrebbero essere le sue guide”. È, dunque, un Enea vivo e concreto, terribilmente solo e terribilmente attuale, un Enea emblema di un tempo come il nostro, una figura di drammatica attualità e verità. Il mese scorso Papa Francesco nell’ampia intervista sulla crisi mondiale causata dalla pandemia di coronavirus concessa ad Austen Ivereigh, scrittore e giornalista britannico, ha citato per tre volte l’Eneide di Virgilio. “Mi viene in mente un verso dell’Eneide che, nel contesto della sconfitta, dà il consiglio di non abbassare le braccia”; e per spingere verso orizzonti nuovi, per prepararsi a tempi migliori: “Abbiate cura di voi per un futuro che verrà … Avere cura dell’ora, ma per il domani”. Poi poco dopo papa Francesco aggiunge: “Mi viene ancora in mente un verso di Virgilio: Meminisse iuvabit. Farà bene recuperare la memoria, perché la memoria ci aiuterà.
Oggi è tempo di recuperare la memoria”. A fine intervista ritorna ancora un riferimento all’Eneide: “È un verso magnifico: Cessi, et sublato montem genitore petivi (Così me ne andai col padre sulle spalle verso il cammino dei monti in silenzio, II, 800-804). Commenta Bergoglio: “Quando Enea, sconfitto a Troia, aveva perduto tutto gli restavano due vie d’uscita: o rimanere là a piangere e porre fine alla sua vita, o fare quello che aveva in cuore, andare oltre, andare verso i monti per allontanarsi dalla guerra”. Con le spalle rivolte alle fiamme che avvolgono Troia, Enea con il padre sulle spalle e la mano stretta al figlio parte per un’altra avventura, per la costruzione di un altro destino; di qui la conclusione: “Quello che chiedo alla gente è di farsi carico degli anziani e dei giovani, di farsi carico della storia … È questo che tutti noi dobbiamo fare oggi: prendere le radici delle nostre tradizioni e salire sui monti”. Insomma ancora un Enea come figura viva nell’esistenza in questi giorni drammatici della pandemia con la mente rivolta a pensare “un nuovo futuro”, a riprogettare la vita nuova, a dare consistenza alla speranza nonostante l’incertezza e la precarietà del momento. Ancora una figura che ci assomiglia, ancora un invito a porci sulla via di Enea, a ritrovare un varco nell’incertezza e nella paura, lasciandoci contagiare dalla speranza e rinnegando ogni forma di indifferenza. Con fiduciosa fierezza e rinnovato ardore: Tu ne cede malis, sed contra audentior ito (non abbatterti ai mali, ma affrontali con maggiore audacia) sono le parole che la Sibilla dice ad Enea per spronarlo a non perdersi d’animo.