
Pochi accadimenti nella storia recente hanno segnato così nettamente un
prima e un dopo. Il Muro di Berlino (9 novembre 1989). Le Torri Gemelle, New York (11
settembre 2001). La crisi finanziaria del 2007-2008, culminata con il fallimento
di Lehman Brothers.
Anche adesso siamo lì, in bilico sulla frontiera ancora incerta disegnata da un virus
mondiale e mortale, che ha devastato con una furia improvvisa milioni di vite in
ogni continente e mandato all’aria l’ordine costituito delle cose e delle persone.
Da noi, piccolo Paese già fragile, molto più che altrove.
Il giorno della Festa della Repubblica cade proprio in questa sottile striscia di
mezzo, che separa i lutti e le angosce dell’era, cento giorni, dell’ira del Covid-19,
dai mille e più giorni che ci vorranno per ricostruire il tanto che è andato perduto,
e possibilmente ricostruirlo meglio di com’era. Questa almeno sarebbe la speranza.
Le prime mosse di chi ha una qualche responsabilità nella delicatissima fase della
ripartenza non lasciano però grandi spazi all’ottimismo, improntate come sembrano
a salvaguardare interessi di categoria o di partito o comunque di bottega,
piuttosto che a una rifondazione pensata per il bene di tutti, a cominciare
dai più deboli, dai più esposti alla coda lunga del coronavirus.
Dice con saggezza profetica Papa Francesco: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di
sprecarla». Ecco, il rischio lo si avverte, camuffato dall’illusione che il prezzo
della salvezza di pochi possa essere sopportato dall’emarginazione di molti.
Il pacato grido d’allarme del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che qualche giorno fa ha annunciato un crollo del Pil del 13 per cento einvocato un patto tra governo, istituzioni e imprese per evitare il baratro, è stato accolto con un generale plauso di
approvazione e un’altrettanta frettolosa archiviazione come
ipotesi di pura retorica. Ma se il «nuovo contratto sociale» auspicato dal Governatore non prenderà davvero forma e sostanza, la deriva più probabile è che venga
sostituito da un «nuovo contagio sociale», sul quale già soffiano con guance rigonfie gli alfieri del «tanto peggio», irresponsabili al punto da anteporre un incasso elettorale da malcontento al destino di un Paese che già nelle prossime settimane, a cominciare dal Consiglio europeo del 19 giugno, si giocherà una fetta importante di questo inatteso presente E del senso che l’Italia deciderà di darsi. Essere una Repubblica, come è
stato deciso nel referendum del 1946, non significa soltanto aver scelto di non avere un re.