«Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi.» (Giancarlo Santalmassi durante l’edizione straordinaria del TG2 del 13 giugno 1981.)
L’incidente di Vermicino fu un avvenimento accaduto in Italia il 10 giugno 1981 che causò la morte di un bambino, Alfredo Rampi detto Alfredino, caduto in un pozzo artesiano in via Sant’Ireneo, in località Selvotta, una piccola frazione di campagna vicino a Frascati, situata lungo la via di Vermicino, che collega Roma sud a Frascati nord. Dopo quasi tre giorni di inutili tentativi di salvataggio, il bambino morì dentro il pozzo a una profondità di circa 60 metri. La vicenda ebbe grande risalto sulla stampa e nell’opinione pubblica italiana, con la diretta televisiva della Rai durante le ultime 18 ore del caso.
La mancanza di organizzazione e coordinamento dei soccorsi, ai limiti dell’improvvisazione, fecero capire l’esigenza di una nuova struttura organizzativa per poter gestire le situazioni di emergenza e negli anni successivi portò alla nascita della Protezione Civile, all’epoca ancora solo sulla carta.
La vicenda ebbe una notevole risonanza mediatica e fu il primo evento che, grazie alla diretta televisiva non stop organizzata dalla Rai de facto a reti unificate e durata ben 18 ore (certo favorita dalla facilità di accesso al sito ─ nell’hinterland romano ─ per i giornalisti e gli operatori della Rai), catturò l’attenzione di circa 21 milioni di persone, che rimasero per ore davanti al televisore per seguirne lo svolgimento.
Nel 1981 la Rai non disponeva ancora di tecnologie adatte per gestire una diretta in esterna, specie se di lunga durata e intrapresa senza preavviso: generalmente le trasmissioni su eventi di cronaca erano mandate in onda in sintesi e in differita, anche per la riluttanza dei giornalisti televisivi dell’epoca, per pudore o motivi etici, a “coprire” in tempo reale eventi tragici e dolorosi, per rispetto sia delle vittime sia degli spettatori. In questo caso, infatti, la diretta fu avviata a seguito dell’incauta dichiarazione resa dal capo dei Vigili del Fuoco Elveno Pastorelli, il quale affermò che l’incidente si sarebbe risolto positivamente in poco tempo: i mezzi di ripresa e trasmissione erano quelli estremamente ridotti della troupettina del TG2 guidata da Pierluigi Pini, di cui dovettero fruire contemporaneamente tutti e tre i telegiornali nazionali allorché decisero di collegarsi.
Col passare delle ore, a dispetto delle aspettative, la situazione si andò via via aggravando, ma ormai l’attenzione suscitata presso i telespettatori era tale da sconsigliare l’interruzione della trasmissione in diretta. In più, secondo Emilio Fede, allora direttore del TG1, Antonio Maccanico (allora Segretario generale alla Presidenza della Repubblica) avrebbe esercitato pressioni per non interrompere la diretta, a maggior ragione dopo aver appreso che anche il presidente Pertini si stava per recare sul luogo.
All’epoca la questione della copertura mediatica delle tragedie private non sembrava affatto scontata come in seguito sarebbe diventata. Per la diretta sulla tragedia fu coniata l’espressione “tv del dolore”.