Riproponiamo le parole della nostra amica milanese Manuela Cimmino, espresso sotto forma di racconto ad aprile, per far capire a tutti la natura del pericolo, esistente ancora oggi anche se in forma forse mutate e con numeri diversi (m.m.)
Un pomeriggio, da un momento all’altro, una febbre altissima mi ha costretto a letto. Solo dieci minuti prima lavoravo serena al mio pc. È così che arriva, come una fiumana.
La tua testa rifiuta di credere che possa essere quello e ti convinci che sia una normale influenza, ma ad ogni sirena che senti fuori da quella finestra, un brivido ti percorre la schiena. No non è quello, stai tranquilla. E cominci a pregare. Sì perché nell’altra stanza ci sono due figli e un marito che, a debita distanza, vengono a chiederti se respiri bene.
Facevo dei test per mettere alla prova il mio respiro: cantavo. Finché riesco a trovare il fiato per cantare sto bene, è influenza.
I giorni passano, ma la febbre no. Cominci a non avere più le forze, ma sorridi a quei faccini che ti chiedono “come va mamma?”. Tutto bene, ora passa.
Al settimo giorno mi accorgo che il respiro, forse, non è come prima … forse mi fa male il petto, ma sarà la febbre alta che mi fa sentire così? Chiamo il numero verde. No signora, tachipirina e a letto. Lo vedi? Lo hanno detto anche loro, tranquilla ora passa.
Due giorni dopo, mi alzo dal letto e la stanza comincia a girare. Ok sei debole, tutto normale. Vado in bagno, ma sembra di aver percorso molti chilometri e no, non riuscirei proprio a cantare in questo momento, anzi non mi riesce nemmeno di parlare, devo usare queste poche forze per tornare a letto.
La fame d’aria è arrivata.
Chiamo. “Arriviamo Signora”. “Amori io vado, tranquilli, mi vedete che sto bene! Torno prestissimo.”
Cammini verso l’ambulanza e il rumore del tuo respiro affannoso copre persino i pensieri, sai che ti stanno guardando dalla finestra, cammina serena finché ti possono vedere.
Quando arrivi in ospedale le emozioni ti travolgono: “non devo toccare niente, magari non ce l’ho è solo polmonite, tutto sommato mi reggo in piedi, mi daranno la terapia e via a casa”. E poi cominci a vedere delle figure verdognole, sì hanno degli occhi dietro quella bardatura e puoi sentirne la voce. Hai più paura tu o loro a toccare te? Tampone, ago, arteria, saturazione. “Signora lei ha bisogno di ossigeno, per questa notte sicuramente resta qua”. Mascherina. “Oh Signore grazie, che meraviglia respirare!”. Cellulare. Devo avvisarli. Sì perché da questo momento in poi tu non puoi che affidarti nelle mani dei dottori e cercare di capire il più possibile tutto quello che dicono per tranquillizzare tutti a casa.
Fa paura. Fa paura vedere i protocolli di sicurezza che devono seguire medici e infermieri ogni volta che entrano nella tua stanza. Io sono un pericolo. Signore, i miei figli, mio marito, non lo permettere ti prego!
Ti tormenti al pensiero di aver potuto infettare qualcuno. Mi aggrappo all’unica certezza che ho. La fede mi salva dal crollo psicologico. Ho smesso di preoccuparmi per me, ho guardato al Dio che guarisce e che dà pace e ho continuato a confidare in Lui.
A casa continuano a stare bene e tu pian piano ritrovi le energie per tornare presto a casa. Allora fingi di non sentire il male ai polsi e quando bucano l’arteria per controllare l’ossigenazione del tuo sangue preghi che quel poveretto che ti guarda e ti dice “scusami, scusami” la trovi subito e non la perda sotto l’insensibilità dei tre paia di guanti che deve indossare.
Almeno ci provi. I valori dell’infezione rientrano, ti diminuiscono anche le dosi di medicina, tra un batti cinque con l’infermiera e una carezza della dottoressa che ti dice “stai andando alla grande”.
Però.
Però, purtroppo i tuoi polmoni non stanno rispondendo troppo bene, hai bisogno di più ossigeno, noi qui non possiamo fare altro, ti spostiamo di reparto.
L’unica cosa che non avrei voluto. Il “casco”. Sono in tre intorno al tuo letto, ti dicono mille cose. Non ti preoccupare, all’inizio è difficile, ma stai tranquilla, respira, andrà tutto bene. Eccolo il momento più brutto. Mi sento soffocare, non sento cosa dite, cosa mi state facendo? Poi quel paio di occhi lucidi, si avvicinano con una dolcezza che mai, mai, potrò dimenticare … mi guardano fissa, una carezza, il contatto fisico che tanto ti manca e quelle parole “lo so, non è facile, ma ce la puoi fare, stai tranquilla, va tutto bene”. Cominci a respirare. Dopo un’ora altro esame. Con un sorriso che, vi assicuro, lo vedete anche solo dagli occhi, mi annunciano che la saturazione è in ripresa. Ok se è questo che mi porta a casa, casco sia.
Mando messaggi a casa dicendo che stanotte, si dorme sulla luna. Riesco a trovare sempre qualcosa di romantico. Ridono. Sono la mia forza.
Qui, appena migliori, appena fai progressi è un susseguirsi di “sei grande”, “tesoro niente febbre, continua così”, “guardate che bella la Cimmino come cammina bene!”, “torni nel reparto a bassa intensità di cura, batti cinque”. Grazie, Dio vi benedica, siete fantastici. E lo vedi, sono felici di sentirselo dire. Angeli, ecco cosa siete.
Ora è tutto in discesa, ancora qualche piccolo accorgimento, via l’ossigeno. E poi, finalmente, quel dottore che entra e ti dice: “Manuela, che dici, ce ne torniamo a casa?”. Finalmente il cuore batte a mille non per colpa della tachicardia, ma per la gioia di tornare dai miei amori.
18 giorni. Non è stata solo una notte. Ho vinto io.
Quando volete parlare del Covid come una normale influenza, abbiate pazienza se non mi trovate in accordo.Provate a dirlo ai miei polsi, che hanno la cicatrice dell’accesso in vena per un prelievo da fare ogni ora.
Oppure alla mia pelle, che ancora oggi dopo 5 mesi è rovinata da sfoghi cutanei fastidiosi.
Ah, poi magari ditelo ai miei capelli che hanno pensato di cadere a mazzi, manco avessi fatto chissà che terapia.
Ci sarebbe poi il cuore ballerino, tachicardia e pressione alta, io che ho sempre avuto il problema opposto.
Per la debolezza e la fatica che ancora non mi lasciano fare tutto come prima, vi faccio lo sconto…magari è solo vecchiaia!
MANUELA CIMMINO