«Il comunismo ha sbagliato. Ma non era sbagliato», era la sintesi del suo giudizio storico, corroborato da un’analisi pessimista del presente: «Non c’è mai stata tanta ineguaglianza nella storia», aveva dichiarato nel 2013. D’altronde avvertiva già da molti anni che alla sconfitta delle sue idee non si poteva rimediare in tempi prevedibili, tanto che già nel novembre 1976 aveva proposto ironicamente questa lapide per la sua tomba: «Cari compagni, costei scelse di far la rivoluzione invece che l’università, ma il risultato non si è visto, non riposi in pace».
Rossana Rossanda fu dirigente del Pci negli anni 50 e 60, deputata per la prima volta nel ‘63, icona della sinistra internazionale, amica di Sartre e Foucault, fu radiata dal Partito nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Luigi Pintor, Valentino Parlato, Lucio Magri, Aldo Natoli e Luciana Castellina, fondò il manifesto. «Divenni comunista all’insaputa dei miei — raccontò una volta —. Era il 1943. Il mio professore di estetica Antonio Banfi mi suggerì una lista di libri tra cui Stato e rivoluzione di Lenin»
Con la sua intelligenza acuta e la sua levatura culturale Rossana Rossanda, scomparsa all’età di 96 anni, avrebbe potuto certamente raggiungere una posizione di rilievo in campo accademico. Ma era ancora una studentessa diciannovenne quando si era unita alla Resistenza nelle file comuniste. E da quella scelta era disceso l’impegno diretto in politica, abbracciato come una vocazione senza dogmi, che l’aveva condotta a farsi largo nel Pci e poi a criticarne le posizioni da sinistra, fino a essere radiata nel 1969 con il gruppo del «manifesto». Da allora era divenuta una sorta di coscienza critica dell’estrema sinistra italiana, senza mai recedere dai suoi ideali comunisti, nonostante le ripetute sconfitte e delusioni.
Nata il 23 aprile 1924 a Pola, in Istria, da una famiglia borghese il cui benessere era stato compromesso dalla crisi del 1929, aveva vissuto per sei anni a Venezia, insieme alla sorella Marina (detta Mimma, più giovane di tre anni e morta nel 2006), presso una zia, poi si era stabilita con i genitori a Milano, dove si era iscritta all’università. E qui, nei giorni tragici seguiti all’armistizio del 1943, aveva chiesto indicazioni politiche al suo maestro Antonio Banfi (filosofo vicino al Pci di cui avrebbe poi sposato il figlio Rodolfo), che l’aveva introdotta negli ambienti della lotta partigiana. Terminata la guerra, Rossana Rossanda si era laureata nel 1946 e aveva trovato il primo impiego all’enciclopedia Hoepli, per poi lasciarlo e dedicarsi con sempre maggiore intensità al lavoro di partito. Le riunioni in sezione, i primi comizi in provincia e in periferia, un viaggio in Urss nel 1949. La convinzione, maturata allora e mai dismessa, che il Pci avesse limiti molto gravi, ma fosse «il solo a innervare la protesta e la speranza, a dare coscienza a masse che non l’avevano mai avuta».
Agli inizi degli anni Cinquanta le venne affidato un compito perfetto per il suo talento: rivitalizzare la Casa della cultura come fulcro dell’attività intellettuale progressista a Milano. Fu un indubbio successo, poiché alle sue iniziative si aggregarono energie che andavano ben oltre la cerchia comunista: personaggi come Giorgio Strehler, Cesare Musatti, Piero Calamandrei, Franco Fortini, solo per citarne alcuni. Poi il fatidico 1956, con il rapporto segreto di Nikita Krusciov sui crimini di Stalin e soprattutto il soffocamento della rivoluzione ungherese. Nel suo libro autobiografico bello e amaro, ma ricco anche di notazioni ironiche, La ragazza del secolo scorso (Einaudi, 2005), Rossana Rossanda riferiva di essere rimasta di sasso vedendo una foto con due operai sorridenti a Budapest di fronte al cadavere di un impiccato. Fu terribile per lei scoprire che i comunisti potevano essere odiati così tanto dalle classi popolari: «Quei giorni — ricordava — mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni». Non bastava tuttavia per incrinare le sue convinzioni politiche. Anzi il tramonto dello stalinismo offrì più spazio a chi, come lei, non ne aveva mai sopportato gli aspetti più rozzi. Nel 1962 Rossana Rossanda fu chiamata a Roma per dirigere il settore culturale del partito e l’anno dopo fu eletta deputata. Poteva essere il decollo verso una carriera di vertice, invece ne scaturì una divaricazione crescente, accelerata dalla morte di Palmiro Togliatti nel 1964. I tentativi innovatori di Rossana Rossanda erano accolti con perplessità, a volte respinti con asprezza, la sua tesi che stessero maturando le condizioni per un mutamento radicale della società non trovava rispondenza nella linea prudente del Pci.
Dall’XI Congresso del partito (1966) la sinistra comunista uscì sconfitta ed emarginata, ma la parte più combattiva, di cui lei faceva parte assieme a Luigi Pintor, Aldo Natoli, Lucio Magri, Luciana Castellina, decise di non smobilitare, tanto più che poi arrivò il Sessantotto a confortarne le speranze. Nel saggio L’anno degli studenti (De Donato, 1968) Rossana Rossanda sostenne che la contestazione giovanile poteva «fungere da detonatore d’una più profonda esplosione sociale». E intanto l’invasione della Cecoslovacchia, condannata con cautela dal Pci, rendeva insostenibile ai suoi occhi la prosecuzione di un seppure attenuato legame con Mosca. Nel giugno 1969 Rossana Rossanda e gli altri del suo gruppo presero a pubblicare con notevole successo di vendite la rivista «il manifesto», la cui linea era chiaramente alternativa a quella ufficiale del Pci, che allora non tollerava correnti organizzate (dette spregiativamente «frazioni»). I reprobi vennero radiati nel novembre dello stesso anno. Ma non si scoraggiarono, anzi nel 1971 trasformarono «il manifesto» in un quotidiano. Pensavano che l’Italia andasse in una direzione rivoluzionaria e si sbagliavano di grosso, ma la longevità della loro iniziativa ne dimostra le formidabili capacità sul piano giornalistico. Dalle colonne del «manifesto», su cui scriveva anche il suo nuovo compagno K.S. Karol (giornalista polacco naturalizzato francese, scomparso nel 2014), Rossana Rossanda si affermò come una voce eretica della sinistra marxista. Fece scalpore nel 1978 con un articolo in cui riconobbe nel linguaggio dei rapitori di Aldo Moro il marchio dell’«album di famiglia» staliniano. E più tardi curò, insieme a Carla Mosca, il libro intervista Brigate rosse (Anabasi, 1994; poi Mondadori) con il capo terrorista Mario Moretti. Non aveva difficoltà a riconoscere la matrice di sinistra delle Br e fu sempre molto severa, da posizioni garantiste, verso chi appoggiava in modo acritico la magistratura inquirente. Assai interessante anche la sua fitta interlocuzione con le femministe, di cui riconosceva le ragioni, pur continuando a ritenere che il problema decisivo nella nostra epoca fosse il superamento del capitalismo.