Dai Gradini dei Monti alla Pedamentina di San Martino, dalla Salita Santa Maria Apparente alle Rampe Ottavio Morisani sino alla Discesa San Pietro ai due frati. Scale, pedamentine, gradoni: è questo lo scheletro di Napoli.
Il Pan ospita, dal 4 al 24 novembre 2020, “Vertebre di Lava” la mostra fotografica di Renato Attanasio con la presentazione di Maurizio de Giovanni. L’apertura è fissata per mercoledì 4 novembre alle ore 17 al Palazzo delle Arti di Napoli. Interverrà l’autore. L’ingresso è gratuito ma sarà consentito, nel rispetto delle norme anti Covid, solo tramite prenotazione al link http://ingressi.comune.napoli.it/. La mostra è composta da 30 immagini a colori, parte di una ricerca molto più vasta, realizzate con le attuali tecniche digitali e stampate nel formato 50 cm x 70 cm che danno a vedere parte del vasto patrimonio di queste opere semplici, vertebre di un organismo complesso fatte per durare nel tempo e per collegare agevolmente parti di Napoli arroccate su promontori e colline.
“Ricordo che mio padre mi raccontava di quando, negli anni ’50, saliva al Vomero dal Petraio con due pesanti borse per raggiungere clienti e riparare radio o televisori. Quanta fatica gli costava percorrere tante scale per poter iniziare a lavorare! Ho percorso le scale del Petraio e tante altre pensando agli affanni, alle speranze, alle preoccupazioni di quanti nel corso dei secoli erano passati di lì. Scale immutate, vertebre di una città in continua trasformazione. Ho cercato di rappresentarle quasi fuori dal tempo mostrando scenari che lo spettatore potesse popolare con la propria immaginazione. L’oscurità permette di isolare ogni scena e focalizzare lo sguardo come su un enorme palcoscenico”, ha spiegato Renato Attanasio.
Presentazione di Maurizio de Giovanni
“Non che sia semplice, fotografare pezzi di questa città. Fate mente locale. Non c’è scorcio, panorama, angolo che non sia stato ampiamente visto, ritratto da ogni angolazione e in qualsiasi condizione di luce. Probabilmente questa è la città più fotografata del mondo. Il motivo sta nella policromia, forse. Tutti i colori dell’universo, ogni sfumatura viene proposta dalle singole stagioni, dal tempo atmosferico mutevole, dalle condizioni poste dalla bellezza. E anche le numerose infamie, i dolori, l’espressività dei linguaggi offrono la ricchezza di una polifonia senza uguali. C’è il mare, certo; e c’è la montagna incombente, l’azzurro del cielo e delle magliette dei bambini, il giallo del tufo, e il rosso dei tramonti; senza contare la gente, le merci, i mille mercati di un posto stretto e convesso, sedimentario e pieno di tradizioni che peraltro si frantumano in centinaia di pezzi cambiando e rinnovandosi costantemente. Per questi motivi l’originalità dell’occhio è un valore inestimabile. Trovare qualcuno che sappia proporre un modo nuovo, mai visto prima, di inquadrare e scattare pezzi della città è rarissimo, e va evidenziato e sostenuto con forza; tanto più se l’autore riesce a sfuggire dal lavorare a tesi per dimostrare il paradiso o l’inferno, come purtroppo fanno in tanti. In questa straordinaria mostra, Renato Attanasio propone le sue Vertebre di lava: e mai titolo fu più preciso e attinente, perché se la città ha una spina dorsale, se esiste uno scheletro che sostiene questo immenso disordinato organismo che cresce senza sosta, quelli sono proprio le scale. Mille pedamentine, semicancellate dall’abitudine a spostarsi sempre e solo a motore, gradini sconnessi che vanno da monte a valle e viceversa, che raccontano la storia faticosa e affannata di generazioni, fatte per i carri e i cavalli e per piedi gentili, che si inerpicano fiancheggiate da bassi e finestre che vanno perdendo luce in nome di una comodità sintetica e senz’anima. Le vertebre che Attanasio si è andato a scovare raccontano incessantemente la nostra storia. E spiegano, senza dire una parola, che la città ha una sola identità frammentaria ma riconoscibile, perché le sue scale di notte cominciano a sussurrare in una lingua antica e perfettamente comprensibile in ogni parola. Ne ho volute cinque, sulla parete principale della mia casa. Per sognare, per sorridere, per evocare i ricordi dei miei avi. Per immaginare il rumore di tutti quei piedi pieni di speranza e disperazione, su e giù, secolo dopo secolo. Portarsi a casa un pezzo di storia, visto con un occhio accorato e partecipe. O anche il semplice caleidoscopio di scorci che sono pezzi inestinguibili della mia città moribonda e immortale.”
Maurizio de Giovanni, ottobre 2020
Note sull’autore
Da sempre appassionato di arte, Renato Attanasio, nato nel 1960, ha iniziato a fotografare dall’età di 17 anni e non ha mai smesso. Nell’epoca della fotografia analogica sviluppava pellicole e stampava le sue immagini su carta con un ingranditore nel piccolo bagno di casa dove aveva allestito una camera oscura rudimentale. Grazie alla comune passione ha conosciuto Giuseppe Gaeta, fotografo di architettura e professore di Tecnica e Storia della Fotografia presso le Accademie di Bari e di Napoli fino al 2008. Legati da una lunga e profonda amicizia, Gaeta è sempre stato un suo punto di riferimento e fonte inesauribile di conoscenza in campo fotografico. Da studente in Economia presso l’Università Federico II di Napoli, dove poi si è laureato, ha lavorato come fotografo freelance nel campo di mostre d’arte ed eventi. Si è poi specializzato nella fotografia industriale e still life utilizzando fotocamere con ottiche fisse di medio formato oltre al banco ottico con pellicole piane di grande formato.
Email: renatorawfile@gmail.com