Si avvicina la data del 21 marzo. Ogni anno nel primo giorno di primavera, l’associazione nazionale Libera celebra la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. L’iniziativa nasce dal dolore di una mamma che ha perso il figlio nella strage di Capaci e non sente pronunciare mai il suo nome. Il titolo della XXVI edizione Riveder le stelle’ citando l’ultimo verso dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri, a settecento anni dalla sua morte.“E quindi uscimmo a riveder le stelle”, così il sommo poeta saluta i suoi lettori alla fine del viaggio nell’inferno. Il desiderio di ‘riveder le stelle’ e di uscire dall’inferno della pandemia, dopo un anno di isolamento e distanziamento, è un desiderio forte tra tutti i cittadini. La parola stessa desiderio ci rimanda al cielo: desiderare è avvertire la mancanza di stelle, sidus in latino, quindi sentire forte la necessità di buoni auspici, di luce che illumina e dà energia. E in questo senso le stelle sono anche le persone che ogni giorno si battono per la giustizia sociale e la legalità democratica. Il 22 marzo 1995 venne freddato Michele Ciarlo avvocato penalista di Pagani, ucciso nel proprio studio, in quel di Scafati. A decretare la sua morte furono gli ‘Aquino-Annunziata’ di Boscoreale, che condannarono a morte l’avvocato poiché colpevole di aver difeso diversi esponenti dei clan ‘Visciano’ di Boscoreale e ‘Sorrentino’ di Sant’Egidio del Monte Albino e rivali degli Aquino-Annunziata. Ecco la ricostruzione effettuata da Daniela Marcone, vicepresidente nazionale di Libera e pubblicata in un documento a cura dell’associazione nazionale e del coordinamento territoriale
22 marzo 1995. Ore 18,30.
Scafati, provincia di Salerno. L’avvocato Michele Ciarlo è seduto alla scrivania del suo studio legale, nella centralissima via De Gasperi. Diverse persone armate fanno irruzione nell’appartamento. Vengono esplosi diversi colpi d’arma da fuoco. Il penalista non fa in tempo ad alzarsi: il piombo dei killer lo uccide sul momento.
La scena del crimine viene ispezionata poco dopo dagli inquirenti, nel tentativo di operare una prima
ricostruzione dei fatti sulla scorta degli elementi raccolti. Nell’ufficio dell’avvocato viene rinvenuto un proiettile calibro 9×21 ed alcune impronte digitali. Vengono inoltre acquisite le registrazioni dell’impianto a circuito chiuso della filiale del Banco di Napoli ubicata nello stesso stabile dove ha sede l’ufficio del penalista. L’autopsia e la perizia balistica aggiungono ulteriori elementi di conoscenza sull’accaduto: Michele Ciarlo è stato raggiunto da tre diversi proiettili, di cui uno calibro 9×21 e gli altri due calibro 38 special o 357 magnum o comunque esplosi da un’arma semiautomatica. A sparare due diverse persone. Il bossolo calibro 9×21 rinvenuto nello studio viene identificato
come di marca Geco. Gli inquirenti si mettono a lavoro facendo leva sui pochi indizi raccolti e sui risultati
delle perizie. Ma il lavoro appare loro sempre più difficile. Le prime piste investigative si indirizzano all’interno
degli ambienti della criminalità organizzata. A A spingerli in quella direzione è l’attività professionale di Michele Ciarlo. L’avvocato infatti difende alcuni malavitosi appartenenti alla camorra locale. Tra questi il più noto è Angelo Visciano, uomo di punta del clan Visciano-Sorrentino che da qualche tempo si fronteggia sul territorio di Scafati con un altro cartello criminale, quello degli Aquino-Annunziata.Viene dunque ipotizzato in un primo momento che l’omicidio possa essere maturato in quel contesto criminale per contrasti sorti tra lo stesso Visciano e il suo difensore. Il boss viene messo sotto pressione. Ma la pista seguita dagli inquirenti non trova riscontro. È lo stesso Visciano anzi ad accusare a sua volta dell’efferato delitto i boss Galasso e Loreto, passati a collaborare con la giustizia. I due avrebbero così inteso neutralizzare il legale e con esso la strategia di delegittimazione dei collaboratori da tempo intrapresa dal penalista con l’intento di dimostrare il falso ed interessato “pentimento” del Galasso, il quale continuava ad intrattenere rapporti con uomini del suo clan, tra i quali lo stesso Loreto.
Visciano aggiunge che già in passato Ciarlo era stato oggetto di propositi criminosi da parte di Galasso e Loreto, ai quali era inviso per i suoi rapporti di collaborazione con le forze di polizia nonché per l’adozione di strategie difensive in grado di pregiudicare le sorti processuali dei due. Intanto, il 27 marzo, a cinque giorni dal delitto, in
una telefonata al 112, una voce anonima riconduce chiaramente l’omicidio ad Angelo Visciano. Chi parla al telefono dimostra di essere a conoscenza di particolari fino ad allora rimasti sconosciuti, come l’arma utilizzata per uccidere il penalista e la presenza nello studio legale di un proiettile marca Geco lasciato dagli assassini. La telefonata
intorpidisce ancor più le acque. Così tutte le piste investigative, pur scandagliate in profondità dagli inquirenti, non portano ad alcun risultato. In sostanza, non ci sono riscontri significativi e si fa strada nella mente degli investigatori l’idea che Ciarlo possa essere rimasto vittima di una vendetta trasversale maturata all’interno della faida in atto tra i due gruppi criminali che all’epoca si fronteggiavano sul territorio di Scafati, quello degli Annunziata-Aquino e
quello sei Visciano-Sorrentino. La svolta delle indagini arriva a quasi due anni dal delitto. Nel novembre del 1996 viene arrestato per porto e detenzione abusiva di arma illegale Nino o’ Milanese, al secolo Gaetano Albano. Albano è in rapporti di amicizia con tale Federico Nicodemo, sospettato di appartenere al cartello Annunziata-Aquino e già vittima di un agguato di camorra avvenuto il 22 gennaio dello stesso anno. Inaspettatamente, Albano confessa agli inquirenti di aver preso parte personalmente, insieme proprio a Federico Nicodemo, all’omicidio dell’avvocato Michele Ciarlo. O’ Milanese chiama in correità, oltre a Nicodemo, anche Filippo Veneruso e Carmine Aquino. I primi due vengono indicati quali esecutori materiali del delitto. Il terzo invece come il mandante. Gaetano Albano si
autoaccusa di aver svolto un doppio ruolo nell’esecuzione dell’omicidio: dapprima quello di avvistatore della vittima (si reca nello studio legale di Ciarlo per accertarsi della sua presenza) e poi quello di palo, una volta che sul posto erano intervenuti Nicodemo e Veneruso. I due salgono nello studio e sparano all’avvocato: Veneruso spara due
colpi con una pistola a tamburo calibro 357; Nicodemo esplode il colpo di grazia alla nuca con una calibro nove automatica. Il racconto di Albano è dettagliato anche in merito al movente dell’azione delittuosa. Tale movente –
si legge nella sentenza della Corte di assise di Appello di Salerno – “era da ricercare nella necessità di dare al Visciano ed ai suoi potenziali successori un segnale di forza colpendone il difensore”. Ma Albano fa ancora di più e si professa l’autore della telefonata del 27 marzo del ’95, attribuendo ad essa un chiaro intento di depistaggio delle indagini. La consulenza fonica eseguita successiva- mente conferma la compatibilità della voce dell’Albano con quella della telefonata. L’uomo riconosce se stesso e Federico Nicodemo nelle persone riprese dalle telecamere a circuito chiuso
del Banco di Napoli e si dichiara disposto, collaborando con le forze di polizia, ad incontrare Filippo
Veneruso al fine di provocarlo per ottenere riscontri utili a confermare le sue dichiarazioni. Il colloquio tra i due viene integralmente intercettato e registrato dagli inquirenti. Veneruso cade nella trappola tesagli da Albano, tradendo se stesso e fornendo una dichiarazione che il giudice di primo grado definirà un “riscontro individualizzante per il medesimo delle accuse mossegli dall’Albano”. In sostanza, una conferma vera e propria della sua colpevolezza e, quindi, dell’attendibilità del racconto di Gaetano Albano. L’11 novembre del 1997 Nino o’ Milanese viene sottoposto ad un incidente probatorio: 12 ore di interrogatorio nel corso delle quali sostanzialmente ribadisce tutte le accuse a carico di se stesso e dei chiamati in correità. Il giudice di primo grado ritiene attendibili le sue sue dichiarazioni, tutte fornite di specifici e circostanziati riscontri, e dichiara i due imputati, Carmine Aquino e Filippo Veneruso, responsabili dell’omicidio dell’avvocato Michele Ciarlo, condannando entrambi all’ergastolo, con tanto di pene accessorie e di risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite nel processo, tra le quali la famiglia della vittima. Siamo nel luglio del 1999. Poco più di un anno prima, il 9 marzo del 1998, Gateano Albano,
gravemente ammalato, si impicca. Le condanne vengono confermate nel processo di secondo grado che si apre nel marzo del 2001. Il 29 di quel mese la Corte si ritira in camera di consiglio e pronuncia la sentenza di condanna. La
Corte di Assise di Appello di Salerno – si legge negli atti processuali – ritiene debba condividersi il giudizio espresso dal primo giudice in ordine al profilo dell’attendibilità intrinseca dell’Albano. “È sufficiente considerare a tal riguardo – scrivono i giudici – che costui si è determinato alla collaborazione quando non sussisteva nemmeno il benché minimo accenno di indizio nei suoi confronti, come testimoniato dal fatto che le indagini si muovevano in tutt’altra direzione e che gli stessi inquirenti avevano accolto la decisione collaborativa con qualche scetticismo, tanto da organizzare immediatamente, anche per saggiare l’attendibilità dell’Albano stesso, la registrazione del colloquio in casa del Veneruso”. Nella sentenza viene accolto in pieno il giudizio di primo grado anche in merito al movente del delitto “collocato – si legge – nell’esigenza di Aquino di dare all’ambiente criminale gravitante in quell’area territoriale, già pervaso da una guerra di camorra in atto finalizzata anche ad assicurarsi la successione criminale del morituro Visciano, un segnale eclatante che suonasse di inequivocabile forza tale da assicurargli il controllo del territorio”. In sostanza, Carmine Aquino, attraverso l’omicidio eclatante del difensore storico del suo rivale Angelo Visciano, intendeva non solo colpire l’immagine criminale del suo avversario ma anche comfermare la sua supremazia territoriale imponendosi così agli occhi dei potenziali aspiranti successori di Visciano, all’epoca gravemente ammalato e non molto dopo morto. Le condanne sono state confermate anche nell’ultimo grado di giudizio.