Il 4 maggio del 1949 ha cambiato la mia vita. La tragedia di Superga me la sono portata dentro durante tutti questi anni e continuerò a farlo finché sarò qui. Il Torino, il Grande Torino, è e rimane nel mio cuore, anche se con Cairo e i suoi uomini non ho nulla da condividere.
Parla Tony Giammarinaro, 93 anni, abruzzese d’adozione, noto dalle nostre parti per aver allenato Avellino, Salernitana e Paganese. Da calciatore gli toccò prendere per mano gli altri ragazzini del Toro chiamati a completare il campionato dopo la tragedia di Superga. «I miei rapporti con il Torino si sono rotti quando cinque anni fa sono andato lì per l’inaugurazione del Filadelfia. A Cairo interessa solo il business, il resto conta poco. Io, Motto e Vandone, unici tre superstiti di quella squadra, siamo stati messi in disparte, quando avremmo dovuto essere i primi ad entrare nel nuovo stadio. Noi che abbiamo calpestato quell’erba insieme ai nostri compagni che per il Torino sono morti. E invece…. Superga fu una tragedia trasversale. Torino era una città attonita. Nei giorni successivi l’incidente la gente piangeva da sola per strada. Ero ad allenarmi con la Primavera. Sarei partito anch’io per Lisbona se la sera prima non fosse arrivata la chiamata per partecipare ad un torneo giovanile a Roma. Noi rientrammo in città al mattino, la prima squadra doveva arrivare nel pomeriggio. Ad un certo punto si avvicina il magazziniere che ci dice che l’aereo era caduto a Superga. Inizialmente pensammo ad uno scherzo. Io e il mio compagno Franconi partimmo su una vespa per andare sul colle torinese. Strada facendo iniziammo a realizzare. C’era un fiume di gente. Più si saliva più aumentava l’odore di bruciato. Arrivammo al punto limite e davanti a me vidi l’aereo in fiamme. Quella fu l’immagine che mise fine al sogno. Valentino Mazzola mi voleva bene. Il giorno del provino mi fece portare delle scarpette perché ero arrivato al campo scalzo. Ricambiavo andandogli a comprare le sigarette, a lui e agli altri “grandi” della squadra. C’era rispetto, non come adesso.
Ero un profugo proveniente da Tunisi: lì era scoccata la scintilla con il calcio. Un sultano mi aveva preso in simpatia e mi faceva giocare con la sua squadra. Avevo 12 anni, ma ero già il più forte di tutti. Con gli arabi scommettevo i soldi della merenda sfidandoli con i palleggi: riuscivo a farne più di 50 con la pallina da tennis. E vincevo. Ma erano periodi duri. Dopo l’arrivo a Novara andai a Torino. Si giocava in mezzo alla strada: lì un uomo mi vide e mi disse: ‘Vieni, ti porto alla Juventus’. Ma io non volli, il mio sogno erano i granata. Dopo Superga che cosa fece? «Rimasi a Torino fino al ’53. Poi iniziai a girare: prima Modena, poi Mantova, dove vinsi un campionato di serie B. Nel ’61 mi richiamò il Torino. Mi fermai altri quattro anni, ma ormai le cose erano cambiate. Gli stranieri avevano preso il sopravvento. Allora me ne andai a Bari, quindi qui a Pescara».