RECENSIONE – Assistere a uno spettacolo di Enzo Moscato vuol dire in primis accettare un patto. Lasciare fuori dal momento immersivo la ricerca di senso e di una costruzione per accogliere l’immediatezza del piano emozionale e la suggestione che parte dalla parola. La cerimonia del teatro resta intatta nel tempo con il suo sacerdote che ne porta ancor più la veste, somma, dietro il suo leggio in cui non mancano fiori e non mancano rimandi.
La richiesta tacita fatta allo spettatore non è che il risultato di un lavoro più che acuto e attento sul testo in quanto luogo non solo di racconto ma di parola che rimanda ad altro, di allusione, di divagazione a cui ogni simbolo allude. Provocatoria certezza da cui attingere probabili simmetrici.
Museo del Popolo Estinto è uno spettacolo corale, con un ego e un alter che si ripropone nei due leggii, porte, nelle coppie che agiscono alternandosi sempre come due/non due. Una dualità/adualità che si incarna in maniera lampante nella figura di Enzo Moscato- Benedetto Casillo, che, quando si incontrano sulla scena, consentono gli unici momenti in cui Moscato non è più assorto nel suo mondo della creazione ma dialoga-si scontra. Sempre sul mondo e sul meccanismo del far teatro. Che nel percorso dell’artista, filosofo, attore, scrittore ha valore quanto il gesto.
In questo senso di grande impatto la scenografia, densa ricca, movibile, colorata restituisce molto del percorso. Come anche la presenza dell’anima giro-vagante, come solo Moscato sa fare, che qui viene interpretata da Giuseppe Affinito. Simbolico passaggio di testimone e di ricerca. Come l’incompletezza delle allusioni che ritornano per raccontare la storia di un Museo del popolo Estinto, un chiaro riferimento alla dimensione contemporanea, senza memoria e senza rimandi.
Le chiacchiere divaganti sulla storia, in personaggi che si alternano, discutono, accavallano, diventa occasione per attraversare cunti e dimensioni, anche frammentari e confusi. Talvolta riescono a toccare anche i torni di una corporeità che da sempre sembra non dover entrare in scena. La coerenza del percorso si arricchisce del suo non sempre chiaro non-sense, del suo bisogno di confronto collettivo che non trova un punto di pace, quanto un punto di sguardo al passato, al letterario, al provocatorio stravolgimento.
Accettato il patto, qui le due ore di spettacolo, diventano frammenti di voci e movimento, fino a discorsi e racconti che avvolgono lo spettatore, lo confondono, lo arricchiscono. Restare su un piano della forma dello spettacolo permette di considerare l’impatto colto ma anche frantumato o segmentato, della parola che poi ritrova la perfezione dei pezzi. Un Museo del Popolo Estinto che cerca la sua dimensione e il suo ruolo, nella memoria e nei gesti. Colpo di pistola, conclusione o inizio, citazione o senso nel percorso di passaggio di noir e di rinascita.
Una dimensione ben spiegata dallo stesso Moscato nella sua nota di regia:
“Composto allora di vari frammenti testuali, autonomi, e nello stesso tempo, interdipendenti tra di loro, il plot, narra – de narrativo, dello spettacolo, di questo intende farsi carico: della negatività e il debordo, noir, civile, storico, estetico, morale, di cui l’odierna città di N. (e, con essa, quasi tutte quelle dell’universo mondo) si sono lasciate con indolenza investire, negli ultimi tempi, ammalandosi, impestandosi. E lo fa, (ancora una volta, con l’ausilio scritturale dell’autorevole voce di Antonin Artaud) dispiegando, tra sintagmi e fonemi, significati e significanti, una sinistra, respingente, ma necessaria fascinazione: quella che proviene, non so, dalla visione obbiettiva della putredine e il male odore, di un corpo cittadino (fatto di pietre e sangue, di massi e di carni, di frasi e di silenzi) che un tempo fu propositivo e glorioso. E che oggi, forse, si potrebbe paradossalmente ancora sanare, salvare, ri-vivificare, MA SOLO ATTRAVERSO l’andare e il venire in noi della MEMORIA, (o della SOSTANZA del TEATRO). Che dovrebbe eticamente avere l’osare di una PAROLA NUOVA (o, almeno il suo tentativo) la quale ponga finalmente le premesse per uno sperabile e prossimo e perdurabile, risolutivo “RESURGAM” di tutti quanti: UOMINI, ANIMALI E COSE, insieme“.
In questo senso accanto al vate Moscato, alla parola del racconto raccontato, c’è la vita di tanti personaggi, tutte voci spezzettate che si completano in una coralità omogenea su cui spiccano, per intensità quelle di Emilio Massa, Anita Mosca, Tonia Filomena. La scenografia e costumi sono di Tata Barbalato.