Tra il 2016 ed il 2017 alcuni funzionari della Cia e impiegati del Dipartimento di Stato americano di stanza a L’Avana riportarono insoliti fastidi debilitanti: forti mal di testa, vertigini, problemi di vista. Gli specialisti del Center for Brain Injury and Repair dell’Università della Pennsylvania utilizzarono risonanze magnetiche avanzate per esaminare quaranta dei pazienti lamentanti sintomi: non fu rilevato alcun segno di impatto fisico sui crani, ma le immagini evidenziarono danni cerebrali.
Ribattezzata Havana Syndrome, la misteriosa comparsa di disturbi neurologici ha interessato nel 2017 un altro funzionario americano in missione a Mosca e nel 2018 dei diplomatici del consolato americano a Guangzhou. A questi si sono sommati i casi riportati in Colombia, Kirghizistan e Uzbekistan che negli ultimi anni hanno contribuito ad alimentare il sospetto, presso le autorità americane, di essere oggetto di una nuova tipologia di attacco. Per neuroarmi (neuroweapons) si intende qualsiasi tipo di agente neurotecnologico, farmaco o dispositivo progettato per migliorare o indebolire le prestazioni cognitive di un nemico.
Le neuroarmi possono influenzare, modellare, potenziare o limitare la percezione umana, ottimizzando o compromettendo la capacità di prendere decisioni. NEGLI ANNI SESSANTA il progetto MK-Ultra, un programma di ricerca della Cia sulla possibilità di produrre deliberatamente in un soggetto umano comportamenti ed emozioni, come paura, ansia o confusione, indagava già sul potenziale delle neuroarmi. I ricercatori si concentrarono principalmente sull’uso di prodotti farmaceutici e droghe stupefacenti, come funghi allucinogeni, marijuana, eroina, Lsd e sieri della verità, per rendere più cooperativi gli obiettivi dell’intelligence.
IL CONTROVERSO programma mise in luce la natura dual-use delle neuroscienze: da un lato cura per disturbi neurologici e psichiatrici, dall’altro possibilità di abbattere le barriere al controllo esogeno delle emozioni, del comportamento e, in definitiva, della mente. Se attraverso uno specifico trattamento il segnale neurale iperattivo o ipoattivo associato alla malattia mentale viene riportato a livelli normali, la stessa tecnica può essere applicata su individui sani: una forma di tortura psicologica o un’arma da impiegare sul campo di battaglia per inabilitare rapidamente e manipolare un gruppo nemico.
Anche microbi e tossine che colpiscono il sistema nervoso avrebbero inoltre il potenziale, con il giusto dosaggio, di indurre specifiche reazioni atte a influenzare il processo decisionale di un individuo. Il parassita Toxoplasma gondii, ad esempio, può causare impulsività, agitazione e confusione, e il batterio Gambierdiscus toxicus può causare incubi e una sensazione di bruciore. Entrambi, in teoria, avrebbero la capacità di compromettere la più primordiale delle scelte: fuggi o combatti. Le neuroarmi potrebbero spingersi ancora oltre, influenzando il complesso processo della memoria. In un esperimento del 2013 condotto dal premio Nobel Susumu Tonegawa al Massachusetts Institute of Technology, dei ricercatori hanno impiantato in un topo una «falsa memoria»: un ricordo non suo. Nel 2014, invece, somministrando una tossina nella regione dell’amigdala di
un ratto, un gruppo di scienziati dell’Università della California ne ha selettivamente cancellato un ricordo, lasciando intatti gli altri. Tecniche che, esportate sull’uomo, potrebbero curare, ma anche indurre deliberatamente un disturbo da stress post-traumatico.
FACENDO ANCORA un passo avanti, la definizione di neuroweapons si può estendere fino
a evocare l’immagine di una rete cervello-computer alimentata da intelligenza artificiale e
potenziamento neurocognitivo: il cosiddetto cyber warrior. Il neuroscienziato James Giordano sostiene che l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e dei sistemi neurocognitivi nelle reti di combattimento militari rappresenterebbe una risposta alla crescente quantità di dati raccolti in tempo reale nell’ambiente operativo e al sovraccarico di informazioni che supera i limiti delle capacità cognitive umane. La ricerca sul cervello umano e quella sull’intelligenza artificiale starebbero dunque convergendo, accelerando lo sviluppo di sistemi di feedback neurale che consentono un flusso di comunicazione bidirezionale tra il cervello umano e il computer.
Il risultato è una totale integrazione fra i due sistemi cognitivi, come avviene per esempio nell’interfaccia dei caschi usati dai piloti di caccia F-35 o in una varietà di display montati sulla testa (Hmd) utilizzati dai soldati sia in addestramento che in combattimento. In questi casi l’intelligenza umana e artificiale co-mediano e co-plasmano la percezione, l’organizzazione e la distribuzione del rischio.
Ne derivano due narrazioni dominanti. Il «neuroscetticismo» che, come per i droni killer, si interroga sulla responsabilità e imputabilità (chi ne risponde?) e sull’ordine gerarchico (a chi fa capo?) dell’azione militare dell’intelligenza artificiale, sulla specificità delle norme che dovrebbero regolarla e sulla vulnerabilità dei sistemi cyborg agli attacchi informatici, alle intrusioni e alla manipolazione delle informazioni da parte delle forze nemiche. Il timore è che se esseri umani e computer fossero collegati in rete neurale, gli operatori umani potrebbero essere «hackerati» o addirittura controllati da governi nemici, terroristi o criminali informatici.
IL «NEUROTTISMISMO» supporta invece il ruolo dell’intelligenza artificiale nel rafforzamento della consapevolezza e delle prestazioni dei soldati. È su questa scia che la Defense Advanced Research Project Agency (Darpa) ha avviato progetti di ricerca neurotecnologica includenti interfacce neurali e sensori che interagiscono con il sistema nervoso centrale e periferico usando nanoneuroscienze, neuroimaging e cyber-neurosistemi. Queste tecnologie fornirebbero gli strumenti per valutare, accedere e indirizzare i segnali neurali, influenzando gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali dei militari. In un report edito nel 2019 il Comando per lo sviluppo delle capacità di combattimento dell’esercito degli Stati uniti (Devcom) ha affermato che, tramite tecniche di neural enhancement, entro il 2050 il potenziamento oculare, uditivo e muscolare sarà «tecnicamente fattibile».