Vivo in una città cementificata dove l’abuso edilizio è la storia appena passata, ma non dimenticata. I colori sono quelli spenti di una periferia che attende che il giorno passi senza particolari scossoni, la natura è dietro la parete di rettangoli che invadono spazi e oltre si scorge il verde di rilievi che hanno resistito alla mano violenta di uomini ingordi di denaro.
Ho voglia di muovermi e respirare l’aria leggera, non ho una meta precisa mentre cammino alla ricerca di un qualcosa che liberi prima i polmoni e poi la mente, ma l’aria è pesante, carica di quelle polveri sottili che i rilievi delle centraline preposte dicono essere sempre oltre i limiti consentiti, e di quel fetore che il fiume rilascia a testimonianza degli scarichi illeciti che accoglie da tempo immemore.
Il disincanto ha il sopravvento e vorrei non essere mai uscita, accelero il passo perché voglio tornare a casa quanto prima e fingere che lo scempio non esista.
La strada è silenziosa, la gente guardinga. C’è chi indossa la mascherina, chi, come me no. Ci si scruta e ci si giudica, gli occhi parlano, ma all’aperto pare si possa ancora scegliere tra le due alternative.
Le restrizioni sono sempre più invadenti e accettate come inevitabili. Mi sembra di soffocare di fronte all’impassibilità dei miei simili che sfilano tra cemento e il lezzo di esalazioni assassine.
Alzo gli occhi e m’imbatto nella gentilezza della natura: un esile albero lascia esplodere fiori bianchi che decorano l’angolo di un fazzoletto di cielo. Mi rincuoro e la spensieratezza rigonfia lo spirito.