Due anni fa il primo contagiato individuato in Cina, ma poco importa il giorno preciso in cui tutto ha avuto inizio. Siamo da tempo in una bolla di incertezza che ha cambiato il quotidiano e pare non voler scoppiare per lasciarci uscire.
Gli eventi che si sono susseguiti è impossibile dimenticarli e contemporaneamente appaiono come immagini irreali di un film proiettato sulla pellicola nelle sale del mondo.
La morte è divenuta compagna nei giorni di massima espansione dell’epidemia e ha tramortito l’idea di un presente che l’aveva da tempo accantonata come un passaggio sì ineliminabile, ma al contempo nascosta agli sguardi.
Il cambiamento prodotto negli ultimi due anni è evidente e ha stravolto le relazioni tra le persone. Siamo un popolo affettuoso che cerca il contatto, eppure abbiamo dovuto imparare a salutarci con gesti fugaci, usando le mani contratte in un pugno contribuendo, in questo modo, a dissolvere l’abitudine all’abbraccio.
La relazione è mediata dal digitale che ha sostituito il dialogo in presenza con quello attraverso il video di un computer nelle scuole, negli uffici, nelle chiese, dove i bambini sono educati alla distanza e i sorrisi sul volto nascosti dall’uso della mascherina, i dipendenti in smart working separati dai colleghi per svolgere il proprio lavoro e impossibilitati a confrontarsi, i credenti incerti se recarsi nelle chiese per non esporsi al contagio.
L’aumento di antidepressivi, in questo lasso di tempo, è il segnale di un malessere significativo che non lascia intravedere i segni di una seppur minima diminuzione; la preoccupazione degli psicologi è palese e mostra quanto l’assenza di contatto umano determini situazioni di sofferenza di differente intensità con cui si dovrà fare i conti, ma gli organi competenti continuano a ripeterci che non sarà possibile ritornare al mondo qual era prima.
L’economia è in affanno, il lavoro a rischio e chissà quali altre trasformazioni diventeranno realtà.
Il linguaggio è cambiato con l’introduzione di parole fino ad ora sconosciute per indicare situazioni nuove; le modalità educative nelle scuole sono cambiate; le relazioni sono state sottoposte a prove che le hanno minate.
Nelle parole appena espresse, volutamente non c’è polemica, non c’è accusa, ma il timore sì, ed è quello che tra breve saremo tutti inseriti in uno schema digitale dal quale non riusciremo più a trovare la chiave per uscirne fuori.
L’emergenza ci ha reso indifferenti alle difficoltà oggettive dell’altro, spesso considerato un nemico da contrastare e in alcuni casi da abbattere; e l’indifferenza fa paura, perché anestetizza, isola, seleziona, separa.
Viviamo in un mondo diviso in fazioni che si combattono, entrambe accomunate dalla paura di soccombere, mentre i “giochi” di potere continuano a fagocitare scontri tra la gente che, probabilmente, dovrebbe guardare nella stessa direzione, perché è nell’unità la possibilità.