L’altra emergenza. Quella del portafoglio, dei ristoranti che si svuotano e degli alberghi che vanno a rilento. Le hall piene, le prenotazioni da gestire, siamo-desolati-non-c’è-posto: roba d’altri tempi. Di prima del coronavirus. L’allarme lo lancia, a denti stretti, Federalberghi, ossia la federazione degli albergatori d’Italia: il turismo non traina più. E non servono neanche i dati (che pure ci sono), non servono le percentuali, le statistiche, le tabelle: basta fare un giro per strada.
Nelle località d’arte non si vede nessuno, entrare in un museo non è mai stato così facile (le code chilometriche davanti agli Uffizi? Un ricordo del passato), in molti si sono proprio arresi. Con quel cartello – cedesi attività- che campeggia fuori dalla porta scorrevole o sopra una claire che è già stata tirata giù. L’annus horribilis del terzo settore dura da almeno ventiquattro mesi. «Nel 2019 le grandi città rappresentavano un quinto delle presenze turistiche», sbotta Bernabò Bocca, il presidente di Federalberghi, «ma nel 2021 c’è stato un calo del 71%».
Il covid. I lockdown. I viaggi ridotti allo stretto indispensabile. Omicron e le quarantene di massa. «La causa va ricercata in una domanda stagnante», continua Bocca, «e in un clima di incertezza generalizzato. Abbiamo chiesto a più riprese l’adozione di misure emergenziali». Hotel, b&b, affitti brevi. Son tutti nella stessa situazione: «Bisogna prorogare la cassa covid almeno fino a fine marzo», chiosa il rappresentante della categoria, «sperando che basti».
Perchè in ballo ci sono circa mezzo milione di lavoratori «che sono col fiato sospeso e le imprese», di questo passo, «non sono in grado di prendersene carico». Ma poi, nella pratica, cosa succede? Succede che a quelle inserzioni – vendesi – rispondono gli investitori, magari stranieri, gli inglesi su tutti. E non sembra vero, a loro, di allungare la mani sui gioielli del Belpaese: la terra delle vacanze, del mare, della montagna, dei pittori e della letteratura.
Pure dello sport: quello invernale, per esempio. L’ultimo affare l’han fatto i britannici della private equity Icon Infrastructures che si son comprati il Sestriere. Sì: per il momento, sul tavolo, c’è appena un accordo preliminare che vale la bellezza di 110 milioni di euro, ma pare che sia solo questione di qualche settimana. Entro fine febbraio firmeranno il contratto definitivo e la Vialattea, uno dei comprensori dello sci più famosi dell’arco alpino, passerà di proprietà.
In Piemonte trattative riservate: ma da quel che è filtrato in questi giorni si sa che la Icon si accaparrerà anche alcune strutture alberghiere e una manciata di rifugi in quota. A Colere (Bergamo) gli impianti li ha “salvati” Massimiliano Belingheri, un banchiere che è sì nato in Lombardia ma da anni vive e lavora a Londra dove fa l’ad della Farmafactoring, uno dei principali istituti per la gestione del credito in Europa.
Lo scorso novembre ci ha messo 2,5 milioni di euro, Belingheri, per quelle seggiovie sui suoi monti, con un’offerta di 500mila euro più alta della base d’asta di partenza. Poi c’è l’hotel Luna Baglioni di Venezia (venduto ai miliardari inglesi Reuben brothers, maggio 2021); il Bauer sempre nella Laguna (venduto al gruppo immobiliare austriaco Signa, giugno 2020); il Lido Palace di Baveno, sul lago Maggiore (venduto al magnate russo Mikhail Kusnirovich, febbraio 2021). E sono solo esempi. Il nostro turismo parla sempre meno italiano.