Lo stralcio che segue proviene dal libro “L’uomo alla ricerca di un senso – Uno psicologo nei lager” – scritto da Viktor Frankl, neurologo, psichiatra e filosofo austriaco, uno dei fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia, metodo che tende a evidenziare il nucleo profondamente umano e spirituale dell’individuo.
Nel 1942 fu deportato nei campi di concentramento insieme alla moglie e a tutta la famiglia, perché ebrei. Tutti, fatta eccezione per la sorella, non sopravvissero a quell’esperienza terribile. Trascorse tre anni della sua vita in condizioni difficilissime, rischiando più volte la morte.
La lettura delle storie vissute nei lager diventa il pugno nello stomaco che permane per un tempo che non si esaurisce nell’amarezza del ricordo.
L’uomo è sì la fucina di azioni riprovevoli, ma è anche un mistero di bellezza che lascia ben sperare. Riuscire a cogliere nei gironi dell’Inferno la poesia dei colori che la natura custodisce e rivela prova che l’umano esiste, anche quando sembra scomparire nel gorgo delle incertezze. E in quell’umano c’è la libertà.
“Chi avesse visto i nostri volti trasfigurati dall’incanto, durante il viaggio in treno da Auschwitz a un Lager bavarese, quando scorgemmo, dalle sbarre di un vagone cellulare, i monti di Salisburgo, con le cime rilucenti nel tramonto, non avrebbe mai creduto che erano volti di uomini che consideravano praticamente conclusa la propria vita. Nonostante tutto – o forse proprio a causa della nostra situazione – la bellezza della natura, che ci fu negata per anni, ci entusiasmava.
E più tardi, nel Lager, durante il lavoro, qualcuno richiamava l’attenzione del compagno che gli sbuffava accanto, su un quadro meraviglioso che si offriva ai suoi occhi; come avveniva, per esempio, nella foresta bavarese (dove cisi toccava costruire enormi fabbriche sotterranee e mimetizzate, per la produzione bellica), quando il sole al tramonto irradiava di luce i tronchi degli alberi, proprio come in un famoso acquarello di Durer.
E accadde una volta che, di sera, mentre stanchi morti dopo il lavoro ci eravamo già sdraiati per terra, nelle baracche, con la ciotola della minestra in mano, un compagno entrò a precipizio, invitandoci a uscire sullo spiazzo dell’appello, nonostante la stanchezza e il freddo di fuori, perché non dovevamo perdere lo spettacolo di un certo tramonto. E quando, usciti fuori, perché non dovevamo perdere lo spettacolo di un certo tramonto. E quando, usciti fuori, vedemmo le scure nubi rosseggianti, a occidente, e tutto l’orizzonte animato da nubi multicolore sempre mutevoli, con le loro figure fantastiche ed i loro colori ultraterreni, dall’azzurro cobalto al rosso sangue, e sotto, in contrasto, le tristi capanne di terra del Lager e il paludoso spiazzo dell’appello, nelle pozzanghere del quale si specchiava la bragia del cielo, allora, dopo alcuni minuti di silenzio rapito, qualcuno disse: “Come potrebbe essere bello il mondo!”.
Oppure: ti trovi nel fosso a lavorare; intorno, un’alba grigia; sopra, un cielo grigio; e grigia è la neve nella luce pallida dell’alba, grigi sono i cenci che coprono i compagni, grigi i loro volti. Ricominci il tuo dialogo con l’essere amato o, per la millesima volta, ricominci a rivolgere al cielo lamenti e domande. Per la millesima volta lotti per una risposta, lotti per il senso del tuo dolore, del tuo sacrificio – per il senso del tuo lento morire. In un’ultima impennata contro lo sconforto di una morte che ti è davanti, senti che il tuo spirito squarcia il grigio intorno a te, e in quest’ultimo slancio senti come lo spirito evade da tutto questo mondo desolato e assurdo e che alle tue ultime domande sul significato del dolore, risuona da qualche parte un “sì” vittorioso e pieno di gioia, e in quest’attimo risplende una luce nella lontana finestra d’una fattoria che sta all’orizzonte come un fondale, nel grigio disperato di un albeggiante mattino bavarese – et lux in tenebris lucet, e la luce risplende nell’oscurità.
Ed ancora, dopo aver zappato per ore e ore il terreno gelato, è passata la sentinella per deriderti un poco, e tu ricominci il tuo dialogo con l’essere amato. Avverti sempre di più che è qui, lo senti: lei è qui. Credi di poterla raggiungere; credi che basti allungare la mano per afferrare la sua mano. Fortissima, ti pervade la sensazione: “Lei è qui”! ebbene, proprio in quest’attimo – che succede? Senza rumore, un uccello svolazzava verso di te, si posa proprio davanti a te, sulle zolle di terra che hai spalato dal fosso, e ti guarda senza volgere il capo. Immobile…