Negli egli Stati Uniti il dibattito sull’inflazione sta un po’ deragliando: c’è chi parla di “Bidenflation” e chi accusa le corporation di avidità.Pur se in modo un po’ distorto, quel dibattito sottolinea che le cause dell’inflazione negli Usa sono molto diverse rispetto alla Ue. In Usa, la coesistenza di politiche monetarie e fiscali espansive ha preceduto lo choc pandemico.
Inoltre, l’Amministrazione Biden non si è limitata al sostegno dei redditi di famiglie e imprese durante l’emergenza ma ha annunciato enormi piani di spesa pubblica di mediolungo periodo. Insieme alla diversa organizzazione della produzione e della regolamentazione e alle “strozzature” nelle catene del valore, ciò ha accelerato la caduta dei tassi aggregati di disoccupazione e il surriscaldamento dell’economia. Oggi,
sebbene i piani di spesa appaiano ridimensionati, si è innescata una classica spirale inflazionistica costi-prezzi. Nella Ue viceversa, i tassi di inflazione non dipendono (almeno per ora) dal programma Next Generation-Eu; essi appaiono soprattutto alimentati da distorsioni settoriali e da disallineamenti (non si sa quanto strutturali) fra composizione della domanda e dell’offerta. Come combattere l’inflazione? Nel caso degli Usa, la banca centrale è costretta a stringere, anche se vi è il rischio che l’incertezza politico-istituzionale freni l’attesa espansione fiscale e inneschi così un eccessivo rallentamento dell’economia. Il problema della politica monetaria è di evitare un pericolo per ora remoto: il ritorno a quella stagflazione che, negli anni Settanta del secolo scorso, uccise il neonato
compromesso fra keynesismo e monetarismo e aprì la strada alla nuova ortodossia di Lucas. Nell’area dell’euro invece, la Bce deve soprattutto evitare che i tassi di interesse di mercato siano eccessivamente contagiati dalle vicende statunitensi. Questo rischio di contagio è difficile da fronteggiare perché la Bce non può farsi “sorprendere”. Resta il fatto che, in vari paesi dell’euro-area – e in particolare in Italia – si rischia
una caduta nel potere di acquisto dei lavoratori salariati dopo che la pandemia ha allargato l’incidenza della povertà e gli squilibri nella distribuzione del reddito. Ciò implica che gli oneri dell’inflazione non vanno addossati a chi ha Redditi bassi e medio-bassi; e, per ottenere tale risultato, occorre realizzare innovazioni produttive e adattare lo stato sociale all’evoluzione post-pandemica. Giorgio La Malfa ha lanciato una
proposta keynesiana Per lui l’inflazione che dobbiamo temere non è quella di oggi ma quella che avremo tra non molto con la piena occupazione. Per questo propone una nuova politica dei redditi e, per
ridurre i consumi, suggerisce di pagare parte degli aumenti salariali in Bot. Un sacrificio per le generazioni future. Sono contrario a imporre vincoli (non dettati da ragioni di etica e di tutele collettive condivise) rispetto
all’utilizzo del reddito percepito da specifici aggregati. Per di più, la proposta di La Malfa imporrebbe limiti di spesa e investimenti finanziari forzosi a componenti specifiche e deboli della popolazione. Non credo che l’euro-area e l’Italia debbano ricorrere a interventi di portata tanto estrema. Il concetto di “risparmio forzoso” trova spazio nella storia dell’analisi economica. Esso richiederebbe comunque di “forzare” le allocazioni di reddito di tutti gli attori economici secondo criteri di equità; e nessun governo europeo sarebbe propenso a imporre
vincoli così intrusivi alle scelte delle imprese o dei detentori di elevate ricchezze.
Penso che un’efficace politica dei redditi giovi sia alle imprese che ai lavoratori, in quanto è una condizione necessaria per uno sviluppo sostenibile di medio-lungo termine. I problemi per l’attuazione di tale politica sono, però, almeno due. Il primo è: qual è il punto di equilibrio nella ripartizione fra profitti e salari, da cui partire? Il secondo problema, ancora più importante, è: la politica dei redditi vincola la dinamica salariale in una
data impresa alla crescita della relativa produttività del lavoro; ma – come sappiamo da Schumpeter
in poi – questa crescita non dipende tanto dall’impegno dei lavoratori quanto dall’efficienza organizzativa e dagli investimenti innovativi dell’impresa.