Dino Zoff domani compirà 80 anni. Forse li aveva già quarant’anni fa quando diventò campione del mondo. Gli aggettivi erano finiti allora, figuriamoci adesso! E’ un Uomo (volutamente con la maiuscola) che non si può raccontare. E neanche “imparare”. Al massimo ammirare!
Non saprei da che parte cominciare a parlare di lui. Perché ogni iperbole farebbe a pugni col suo stile di vita, con la sua serietà, coi suoi pudori, con la sua compostezza. Potrei dire dell’unica volta, in cui fu un po’ sgarbato con me in cinquant’anni di amicizia: così rara dall’essermi rimasta impressa. Accadde nel viaggio di ritorno dalla Coppa del Mondo d’Argentina del 1978 in cui soffrì tantissimo per alcune critiche (che peraltro la sua onestà non gli permise di confutare). Forse in quel momento temeva che quella sarebbe stata l’ultima occasione di disputare (e vincere) un Mondiale. Ma aveva sottovalutato tre cose: il suo insostituibile talento, la sua tenacia e l’immensa stima nei suoi confronti del “padre” calcistico che vegliava su di lui. Un “padre” con cui parlava, non solo metaforicamente, la stessa lingua
E’ stato il compagno – a maggior ragione il capitano – che tutti avrebbero voluto avere. Certamente anche l’amico. Sarebbe bello chiedere a Scirea quante parole si dicevano senza parlare. Perché i lunghi discorsi, nei ritiri e negli spogliatoi, si fanno anche con uno sguardo. Credo che sia l’unico giocatore che non abbia mai “diviso”: malgrado l’identificazione fortissima con una squadra che non tutti amano. “E’ il solo juventino che non abbiamo mai fischiato a Napoli” mi disse un giorno un amico. Forse perché anche a Napoli si era fatto amare: per il suo rigore, per la sua onestà, ma in fondo anche per l’affetto che sapeva portare a tutte le cose che potevano sembrargli simmetriche. E da “napoletano” vinse quello che fino all’estate scorsa era l’unico titolo europeo conquistato dall’Italia
Impossibile narrare la sua carriera in poche righe: tanto vale fare un salto su Wikipedia. Che però racconta i numeri, ma non la Storia. E neanche i sentimenti. Molti anni fa lo ospitai in una (posso dirlo? bella) trasmissione radiofonica in cui ci si raccontava attraverso le canzoni. Mi parlò di come corteggiò Anna a Mantova (appostandosi sotto i portici: ce lo vedete?), del loro amore, delle loro canzoni, delle loro vacanze (sempre rigorosamente “di lavoro”), del suo orgoglio per Marco (senza ancora sapere che sarebbe diventato un affermatissimo top manager). Ora mi parla dei nipotini: “Provo ad essere un po’ più sciolto di quanto non sia stato con Marco. Non mi viene benissimo, ma mi sembra che apprezzino” Si diceva delle canzoni della sua vita (un po’ datate, ma certamente non banali): da “Only you” a “Cuando calienta el sol”, da “Summertime” a un’inattesa “Il cielo è sempre più blu”, da “Emozioni” a “Quello che le donne non dicono”, a “Generale” (“Un po’ lo sono anch’io, no?”). E poi Guccini, tutto Guccini: che quando lo vede lo fa ridere un po’.
Un Papa lo ha chiamato “collega” (Wojtyla, che da giovane giocava in porta). Un Presidente della Repubblica (Pertini) gli ha scritto per chiedergli scusa di un errore fatto giocando a scopone. Un Presidente del Consiglio (Berlusconi) ha incautamente sfidato la sua dignità. “Certo che mi dimisi, anche se non lo fa mai nessuno. Ma sono sicuro che mio padre avrebbe approvato” Già, suo padre Mario. Contadino. “Se non vuoi lavorare la terra, prima studi e poi fai quello che vuoi”. In effetti, prima di trovare la sua strada, un po’ studiò e un po’ fece la cosa che gli piaceva di più: il meccanico. Poi arrivarono il calcio e la Storia.
“Che ti direbbe tuo padre oggi che hai ottant’anni?” “Di vè cusenca”. Di avere coscienza. Missione compiuta!
Mandi, Campione di vita!