Di fronte al massacro del popolo ucraino, è del tutto condivisibile l’obiettivo che si è data l’Unione europea di sottrarsi al ricatto del gas russo, riducendone drasticamente il consumo. Ma il piano (REPowerEU) che la
Commissione ha pubblicato l’8 marzo scorso appare davvero irrealistico.
L’obiettivo è di ridurre le importazioni di gas russo di ben due terzi (da 155 miliardi di metri cubi del 2021 a 50 miliardi) entro quest’anno! Questo obiettivo verrebbe raggiunto soltanto con più rinnovabili, diversificazione geografica e risparmio energetico, con l’aggiunta di una spruzzatina di idrogeno. Per capire quanto sia poco
realistico questo piano, basta confrontarlo con quello formulato dall’Agenzia Internazionale
dell’Energia, secondo cui l’Unione Europea può ridurre le importazioni di gas russo di un terzo (ossia 50 miliardi di metri cubi, non 100 come vorrebbe la Commissione), ma a patto di fare una serie di cose di cui la Commissione non parla, fra cui: aumentare la produzione interna di gas naturale (il che, tradotto, è uguale trivelle),
non spegnere le centrali nucleari ancora attive, accelerare la messa in funzione di una nuova importante centrale in Finlandia, ridurre di almeno un grado centigrado la temperatura consentita negli uffici e negli edifici residenziali. Questo è il minimo indispensabile per cominciare ad affrancarsi dal ricatto del gas russo.
Di più si potrebbe fare – aggiunge l’Agenzia – ma solo usando più petrolio e carbone, il che andrebbe a scapito degli obiettivi di riduzioni delle emissioni di CO2. La cosa che più stupisce nel piano della Commissione è la mancata considerazione del gas come soluzione intermedia verso la transizione energetica.
A scanso di equivoci, le nostre società sono molto più flessibili di quanto non si pensi, ma occorrono politiche chiare e segnali di prezzo inequivoci per i mercati e per i consumatori. Non siamocondannati a usare il gas russo!
Negli anni Settanta, il miracolo lo fecero gli aumenti del prezzo del petrolio: tutto l’occidente ridusse drasticamente i consumi energetici. Negli Stati Uniti, dopo l’attacco alle Torri gemelle
iniziò un lungo percorso con l’obiettivo dell’autosufficienza energetica. Ancora nel 2008 la dipendenza dall’estero era al 30 per cento del fabbisogno; da allora è continuamente e rapidamente scesa, con l’amministra –
zione Obama e con quella di Trump, tanto che nel 2019 gli Stati Uniti hanno superato il breakeven e sono diventati esportatori netti di energia. Questo secondo miracolo americano, che ora consente a Biden di bloccare tutte le importazioni dalla Russia, è stato reso possibile dalle innovazioni tecnologiche per l’estrazio –
ne di petrolio e gas da giacimenti non convenzionali (shale gas e shale oil) e dal fatto che non furono messi ostacoli a queste attività; anzi vi furono incentivi e ricerche congiunte fra settore pubblico e privato. Come sempre
succede in questi casi, cercando si trova; ogni volta che si cerca si scopre che le riserve accertate e
quelle possibili sono maggiori di prima. Cosa ovvia, peraltro: chi non cerca, può solo tirare a indovinare e nel formulare previsioni non si discosta troppo da ciò che si conosce. Ancora nel 2014 i più autorevoli analisti ritenevano che l’obiettivo dell’autosufficienza degli Stati Uniti potesse essere raggiunto solo nel 2035!
I paesi europei non hanno mai avuto l’obiettivo dell’autosufficienza. A metà degli anni Novanta, la dipendenza dall’estero di Ue più Norvegia era attorno al 34 per cento, poco più che in America nel 2008. Da allora, la dipendenza, invece di scendere, ha continuato a crescere, fino all’attuale 48 per cento. Le nuove tecnologie di estrazione sono vietate o ostacolate in molti paesi dell’Ue, compresa l’Italia. E’ ora di cambiare. Ma le vie facili non esistono, anzi rischiano di alimentare pericolose illusioni.