“Io ho smesso col calcio a ventinove anni. Stavo al Verona, retrocesso per quella faccenda della telefonata di Garonzi a Clerici. Mi sentivo demotivato, ho piantato lì. La gente a Verona non capiva, scusi se mi tocco. Dicevano: povero Pace, lo sappiamo noi perché smette così presto, ha un brutto male e vuole morire a casa sua. Invece di morire, toh, ho messo su un piccolo centro sportivo, calcio, tennis, queste cose. Cinque anni sono stato fuori dal calcio, poi m’è saltato in testa di iscrivermi al supercorso di Coverciano.
“Quella storia del brutto male insegna che le cose raramente sono come sembrano. Il Pace calciatore, per esempio. Dicevano che ero tecnico ma svogliato. Invece ero volenteroso ma scarso tecnicamente, avevo solo un gran fisico, e con queste ciabatte numero 44 non potevo fare i ricami. Si sta parlando di un Bologna con all’attacco Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti. Giocavo ora qua ora là, ho smesso senza sapere cosa ero. Oggi mi vedrei come cursore sulla fascia, ma non importa, non ho rimpianti.
“Ma quale matto? Io ero l’unico che protestava quando alle 10 meno 5 toglievano a tutti la luce in camera e mi giravo nel letto con gli occhi aperti fino alle due. Io non accettavo che per fumare una sigaretta ci si doveva nascondere al gabinetto, la fumavo davanti all’allenatore. Se era Oronzo Pugliese, vedeva rosso. Una sera, ricordo perfettamente, era al cinema Manzoni di Bologna, nel buio lo sentì gridare: “Pèce, ti ho becchèto” e mollò una sberla a uno che fumava e mi assomigliava. Lì veramente ero d’accordo con Bulgarelli, lui doveva fare la spia indicando un finto Pace. Un’altra ossessione erano i controlli telefonici. Io sostenevo che a casa mia avevo anche il diritto di staccare il telefono. Pugliese non mi trovava, anche se magari ero in casa, e mi vedeva perso in un vortice di peccato. La mattina dopo mi presentavo allo stadio e lui mi diceva: “Tu adesso per punizione fai trentasei giri di campo”. E perché, dicevo io. “Perché te lo dico io”, diceva lui.
“Dei tecnici che ho avuto ricordo molto volentieri Edmondo Fabbri e Gipo Viani per l’umanità, sapeva come prendere i giocatori. A me diceva: “Bruno, sparisci, vai tre giorni a casa, fai quello che ti pare, ma allenati bene perché domenica ti tocca Bertini”. E io, responsabilizzato, rendevo il doppio. Una volta, a Oslo, mi puntò un coltello allo stomaco durante la cena perché gli altri compagni scherzavano su un flirt tra sua figlia e me, era uno sketch più che altro. Fabbri, per tecnica e tattica, è il più bravo di tutti. Solo che è debole di nervi, appena una cosa va storta vede ombre e nemici dappertutto. Gli voglio molto bene. Una volta è stato sei mesi senza rivolgermi la parola. “Dov’è Mondino?” aveva chiesto uno entrando nella hall. È fuori, seduto sul bordo del marciapiede con le gambe penzoloni, avevo detto io, Fabbri era alle mie spalle e si è divertito proprio pochino.
Dei tecnici attuali mi piace Liedholm, è calmo, intelligente, sdrammatizza tutto. Il calcio ha successo perché tutti dicono quello che vogliono. Me compreso. Non ho ricette segrete, credo in quello che faccio e basta. Voglio un collettivo di giocatori responsabili. Non mi devono scassare l’anima col letto che cigola, con il latte che è freddo, con l’acqua che è calda, non sono queste le cose che contano e comunque se le risolvano da soli. Il calciatore è stato per tanti anni un pollo d’allevamento, se andava a fare un biglietto aereo per Londra garantito che arrivava a Bucarest. Io non sono il sergente di ferro che impone la disciplina, io voglio imporre l’autodisciplina e se trovo uno dei miei giocatori che fuma di nascosto gli dico che è un deficiente. Io li giudico sul campo, la loro vita è loro, e mi farebbero un gran favore se la piantassero di chiamarmi Mister. Ai miei tempi, molti dicevano signor Mister, che è pure peggio.
“Come allenatore la lezione più importante, spero l’ultima, l’ho ricevuta da un giocatore a Modena, Guidazzi si chiama. A Modena avevo l’abitudine di passare dopo cena da casa di qualcuno dei giocatori. Non per controllare, piuttosto per fare due chiacchiere in distensione, l’amalgama e l’ambiente si fanno anche così. Quella sera, Guidazzi era con una ragazza. Niente di proibito, guardavano la tv. Ho bevuto un bicchierino con loro, poi uscendo ho picchiato l’indice sul mio orologio, erano le dieci e mezza, non bisognava essere Einstein per intuire come sarebbe finita la sera di Guidazzi. “Pensa all’allenamento” gli ho detto, o qualcosa del genere. E lui: “Mister, quello che faccio o non faccio a casa mia sono totalmente affari miei. Sul campo sono affari suoi e si regolerà come crede”. Bravo, gli ho detto, complimenti, questo è parlare da gente seria. E infatti ha poi giocato tutte le partite di campionato. Ecco, una squadra seria si fa con gente seria, niente frignoni o furbetti, io sono mitissimo ma se cercano di fregarmi l’incollo al muro”.