Claudio Signorile era, nel tempo del rapimento Moro, vicesegretario del Psi. È stato tra i più impegnati nella ricerca di una soluzione politica che salvasse la vita del presidente della Dc. Per questo incontrò più volte esponenti dell’autonomia romana. Qui racconta la sua convinzione, maturata negli anni. Qualcuno ha accelerato la fine di Moro perché consapevole che la mattina del 9 maggio, alla direzione Dc, Amintore Fanfani avrebbe fatto quell’apertura che le Br, in una telefonata di Moretti alla famiglia Moro, avevano richiesto come condizione per non eseguire l’assassinio dello statista. Signorile aveva convinto nei giorni precedenti Fanfani ed altri esponenti Dc a fare un passo. Con lui torniamo a quelle ore. «Quella che avevamo concordato non sarebbe stata una posizione isolata di Fanfani. Altri, come Donat Cattin, Bisaglia, Emo Danesi mi avevano garantito che avrebbero sostenuto quella linea. Ciò avrebbe prodotto una modifica degli orientamenti precedenti e avrebbe messo le Br in una condizione di difficoltà. E insieme un segno di attenzione per quello che stavano facendo i socialisti. Sarebbe stata una riunione importante, molto importante».
«I dorotei non erano amici di Moro, però Bisaglia era amico di un rapporto con i socialisti: in politica si intrecciano le convergenze più complesse. Un comportamento ispirato ad una preoccupazione umanitaria corrispondeva anche, in quel momento, ad una logica politica».
L’impressione che tu avesti dai colloqui con Piperno e Pace fu che questa posizione di Fanfani sarebbe stata sufficiente?
«In quel momento ero convinto di sì. Perché ti dico in quel momento? Perché in questi anni mi sono convinto che Piperno pensasse di sapere delle cose che probabilmente non sapeva. Cosa voglio dire? Che forse il tavolo sul quale si stavano giocando le carte era cambiato. Ecco perché io insisto molto sugli ultimi giorni del rapimento. Dopo il lago della Duchessa io comincio ad avere non dei dubbi sulla buona fede di Piperno che si comportò correttamente, ma sulla reale capacità di orientamento delle decisioni da parte del gruppo cosiddetto politico. Per questo è sbagliato, nel ricostruire le cose, affidare tutto al rapporto nostro con Piperno e Pace. Perché molto probabilmente già allora si era stabilito un intreccio fra il sistema dei Servizi e la realtà del brigatismo».
Stai dicendo una cosa importante…
«Faccio una riflessione: nell’estremismo italiano, all’inizio, noi abbiamo due componenti: il braccio armato delle Brigate rosse al cui interno c’è anche una dialettica e poi Autonomia operaia, Potere operaio, cioè le formazioni politiche. Ad un certo punto, prima del rapimento Moro, avviene una rottura. Autonomia operaia, Potere operaio o comunque il gruppo che si forma, di cui Piperno è uno dei portatori, ha una visione, un obiettivo politico, eversivo ma politico, mentre il braccio armato, le Br, coloro che scelgono la lotta armata, hanno bisogno di un alleato che sia in condizioni di dare loro armi e denaro. È quasi fatale, è una verità storica. Non mi metto neanche a discuterne, è fatale».
Quali Servizi?
«Lo dico per l’esperienza diretta di quegli anni. L’Italia era nel cuore di un sistema di Servizi che l’un l’altro si controllavano, si intersecavano, si combattevano. Ma era un sistema. L’Italia è troppo importante strategicamente. Lo è per il suo essere un Paese Nato, per la sua collocazione nel Mediterraneo, per la presenza di un partito comunista al trenta per cento. Io credo che già nel momento dell’organizzazione del rapimento ci sia stata una forma di sostegno, o di aiuto. Tutta la vicenda dei cinquantacinque giorni va letta con un doppio riferimento: i brigatisti che direttamente, fisicamente, compiono l’operazione — anche con una dialettica interna tra la componente più politica e quella militare — e le forze internazionali intenzionate ad assicurare una determinata evoluzione di quel passaggio storico. Quando avviene il depistaggio della Duchessa è chiaro che quel Sistema sta dando un segnale. È il segnale che è cambiata la gestione. L’ho pensato e poi mi è stato confermato. Un cambio di gestione. Da quel momento tutto scivola rapidamente verso l’assassinio».
E tu cosa fai?
«Cosa potevo fare? Vado avanti. Ho convinto Fanfani a fare il passo. Pensavo, forse ingenuamente, che avessimo, comunque, a che fare con un soggetto politico. Le Br avevano chiesto esplicitamente un gesto chiarificatore della Dc e quello si stava per determinare. Loro potevano anche pensare che comunque l’obiettivo fosse stato raggiunto. Dare un colpo alla solidarietà nazionale, ricevere una legittimazione e delegittimare Moro che, anche libero, sarebbe stato politicamente finito. Ma questo era un atteggiamento politico, invece scattarono altre logiche e altri interessi. In quelle ore pensavo ancora che una posizione della Dc, dopo la telefonata di Moretti a casa Moro, non poteva essere ignorata. Bisognava stringere i tempi. Io continuo a ritenere di essere stato intercettato, quando chiamai Craxi dal telefonino della macchina per raccontargli dell’incontro con Fanfani. Tutti noi eravamo seguiti e ascoltati. Forse, sapere che la Dc si stava muovendo, ha spinto chi lo voleva morto a stringere i tempi. È il grande quesito che mi porto dentro. Dopodiché qualcuno ha sparato».
Che idea ti sei fatto sulle ricostruzioni dell’assassinio in via Montalcini?
«Te lo dico onestamente, qualsiasi ricostruzione io abbia visto fino adesso non riesce ad essere convincente. La ricostruzione fatta dai brigatisti non convince, non è palesemente vera, risulta da tante cose. Ci può essere stato un intervento terzo».
Craxi ad un certo punto dice «È venuto qualcuno da fuori»…
«Un intervento terzo. Se sono vere le cose che ti sto dicendo, perché no? Si ha a che fare con figure tipo Moretti che sono assolutamente subalterne, borderline, forse anche più di borderline. È una situazione in cui i Servizi, diversi, conflittuali ma guardiani dell’equilibrio di Yalta, convergono nella volontà che la vicenda si concluda con la morte di Moro, considerato l’artefice della politica di solidarietà nazionale che nessuno dei due blocchi poteva accettare. Anche se, per esempio tra gli americani, esistevano due posizioni diverse, allora. Più contrario il Dipartimento di Stato, più favorevole, sembra incredibile, la Cia. Io ero andato negli Stati Uniti ad ottobre del ’77. Cerco lì di spiegare le cose: ripeto a tutti una frase apparentemente banale: “Il Partito Comunista Italiano, con Berlinguer, ha preso una posizione importante sulla Nato. Ed è il più grande partito comunista dell’occidente? È un bene o un male che questo avvenga?”. Loro ammettono: “Un bene”. Allora di cosa stiamo parlando?».
Perché secondo te tutti, compreso Maccari in punto di morte, sono rimasti su quella posizione? Cioè perché non c’è mai stata una smagliatura?
«Ti faccio una domanda: perché avrebbero dovuto? Con una smagliatura si riapre tutto. Senza quella smagliatura si chiude tutto. Io preferisco morire non lasciando strascichi dietro di me. Messa così si capisce meglio. Tutto si è chiuso, come una porta blindata. Oggi chi vuole la verità?».
Perché la polizia non ha seguito Piperno e Pace che evidentemente, dopo i colloqui con voi, riferivano a qualcuno il contenuto?
«Perché aveva avuto indicazione di non farlo».
Da Cossiga?
«Da chi poteva dargli queste indicazioni. Non lo so, quindi non mi permetto di fare illazioni. Certamente è incredibile che, sapendo che noi avevamo questi incontri, in quei giorni nessuno abbia predisposto pedinamenti… Eravamo sotto uno stretto controllo. Pensa che allora ci davano una pistola per difenderci…».
Rino Formica mi ha detto che «non è vero che non avessimo avvertito, Cossiga e Leone erano informati».
«Leone sì, con Cossiga non avevo un rapporto allora. Non gli parlai mai di queste cose perché non mi fidavo di lui. Leone, per aver dimostrato disponibilità a cercare strade per la liberazione di Moro, ha pagato un prezzo altissimo».
Parlami di Cossiga e Andreotti in questa vicenda. Andreotti sembra sempre defilato…
«È garante dello statu quo, non è defilato. Se si creano le condizioni per la liberazione di Moro lui non le ostacola, ma non fa niente per produrle».
Mette mano all’appello di Paolo VI per chiudere ogni spiraglio…
«Lui è presidente del Consiglio di un governo che non può andare in Parlamento perché non ha maggioranza parlamentare. Andreotti era leale verso gli alleati. In tutta la vicenda non fa nulla in favore di una soluzione. Non facilita, non ostacola. La posizione di Cossiga è diversa. Più che allievo di Moro, lui mi sembrava allievo di se stesso. Cossiga ha sempre avuto un rapporto con i Servizi. Forse era naturale che fosse così. Ma in quel periodo avviene un radicale mutamento degli assetti dei Servizi. È un fatto storico che gran parte dei vertici furono inquinati dalla P2. E non ho mai capito l’uso di quel consulente americano che ha sempre dichiarato esplicitamente di avere come unico obiettivo quello di assicurarsi che Moro non uscisse vivo dalla prigione Br. Cossiga in quel periodo sta costruendo il suo futuro politico. Se Andreotti è il garante dello statu quo, Cossiga è il garante del divenire, di quello che si sta preparando».
La morte di Moro è stato un demone che non lo ha mai lasciato, c’era in lui un dolore autentico…
«Era Presidente della Repubblica. Parlando una volta del 1978 mi capita di dire: “Poi bisogna andare a guardare in quelli che sono i santuari, perché esistono”. La mattina dopo arriva una telefonata del capo dello Stato. “Ti voglio dire subito che questa telefonata è intercettata”. Ho risposto: “Francesco è tuo diritto farlo, fallo, cosa c’è?”. “Volevo dirti che queste cose che tu hai detto non corrispondono a verità”. Ho replicato: “Guarda che tu non c’entri, non c’è nessun riferimento a te”. Insomma mi fa capire che lui allora avrebbe potuto tirare fuori delle altre intercettazioni del periodo dei nostri tentativi. Allora io chiudo: “Non pensavo a te, non ho nessuna intenzione di fare reati di lesa maestà nei confronti del Presidente. Quindi finiamola qui”. C’erano delle cose sulle quali lui era reattivo in maniera impressionante. C’è una circostanza che non finisce di turbarmi. Quando mi chiama da lui la mattina dell’assassinio, prima del momento in cui viene trovato Moro, perché lo fa? Io allora ho pensato che volesse commentare ciò che stava per accadere nella Dc quella mattina. Vado lì, ma lui non fa nessun cenno a questa cosa. Allora penso: forse lui ha la notizia che l’hanno liberato o lo stanno liberando. Se no perché mi ha chiamato? Fa in maniera che io sia lì quando si apprende di Via Caetani. Nel suo ufficio c’era una cicalina collegata con il Prefetto e il capo della Polizia. “È stata individuata un’automobile, andiamo a vedere”. Un attimo di silenzio e poi: ”È la nota personalità”. Cossiga diventa bianco, dice: “Mi devo dimettere”. “Devi farlo”, gli dico. Ci abbracciamo, me ne vado. Perché mi ha fatto andare lì quella mattina? Me lo chiedo ancora oggi».
Tu che spiegazione ti sei dato?
«Non me la sono voluta dare. Però il pensiero peggiore è che lui consapevole che la vicenda si stava concludendo volesse un testimone inattaccabile in grado di dare conto della sua sorpresa e del suo sgomento. Devo pensare questo. Non ne ho mai parlato, non ho mai aperto polemiche su questo. Ma Cossiga, in quel tempo, guardava “oltre”».
Quando Craxi parla del grande vecchio a chi si riferisce?
«Non a una persona, a un sistema. È il destino disgraziato di questo Paese di frontiera attraversato dagli interessi pesanti della Guerra fredda. Eravamo in piena Seconda Guerra fredda, alla fine degli anni Settanta. C’è Ustica due anni dopo, e gli euromissili…».
Cosa morì, politicamente, con l’uccisione di Moro?
«C’è stata sempre confusione su questo. La solidarietà nazionale non finisce subito dopo il 9 maggio. Resiste due anni. Perché Berlinguer, che non era un estremista irresponsabile, voleva chiudere il percorso iniziato in quella legislatura. Nel Psi il fatto che io avessi la maggioranza poteva scongiurare l’idea di un governo senza il Pci, suggestione che pure si faceva strada. Berlinguer voleva essere il leader del Pci che completava la legittimazione del suo partito, che apriva la strada alla praticabilità di quella democrazia dell’alternanza che era la sola formula possibile per la governabilità italiana. Non l’alternativa, non la semplice solidarietà nazionale, ma uno schema nel quale Dc e sinistra — che avrebbe regolato all’interno il tema dei rapporti di forza tra socialisti e comunisti — potevano tornare a competere. Un disegno lucido. Era quello di Moro, “la terza fase”. Per questo la storia del rapimento è finita in quel modo. Quel progetto, utile per la democrazia italiana, era incompatibile con gli equilibri della Seconda Guerra fredda».
E la Dc?
«Dc e Pci vanno alle elezioni, nel 1979, pensando che ne uscisse un risultato non dissimile da quello del 1976 e questo consentisse di continuare quel processo politico. Ma non fu così. Persero voti ambedue. A quel punto Berlinguer comincia a cambiare rotta ma, soprattutto, comincia a cambiare rotta Craxi. Io ho ancora la maggioranza nel partito, De Michelis non ha ancora fatto il passaggio con gli autonomisti. Dopo le elezioni c’è l’incarico a Craxi, il primo incarico. L’idea era Craxi presidente con la maggioranza di Moro. Io mi faccio il giro del mondo, visti i precedenti, per convincere. C’è il sì di tutti, meno della Dc. Il Pci non si oppone, forse pensando che la cosa sarebbe morta per l’opposizione democristiana. Nel 1980 il congresso della Dc si apre con la maggioranza di Moro. Nel senso che la relazione di Zaccagnini parla di emergenza senza alternative: voleva dire governo di solidarietà nazionale. La maggioranza sulla carta c’è: Zaccagnini, Andreotti, e i dorotei che portano a casa il segretario del partito, Piccoli. Galloni, che era vicesegretario uscente, convince invece i suoi ad andare da Zaccagnini per dire che la sinistra dopo la morte di Moro non poteva accettare un segretario che non fosse della sinistra, cioè lui. Si sfascia così la maggioranza. I dorotei capiscono l’aria, prendono armi e bagagli e fanno l’accordo con Donat Cattin e con Forlani. La stupidità fu non aver capito, cosa che a me era chiara, che i dorotei erano il punto di interlocuzione. Se il congresso della Dc si fosse chiuso come si era aperto, cioè con la maggioranza Andreotti, Zaccagnini, dorotei, probabilmente parleremmo di un’altra storia nazionale. Poi la domanda vera è: avrebbe retto la Dc senza un leader forte? Fatto sta che nasce, senza il Pci e con l’appoggio esterno del Psi, un governo Cossiga. Il garante dell’avvenire».
In una puntata della bellissima trasmissione di Zavoli «Notte della Repubblica» tu, parlando delle riunioni di quei giorni con la Dc, dici: «Mi fermo perché dovrei raccontare episodi imbarazzanti».
«In quell’incontro tra le due delegazioni, Zaccagnini non aprì bocca, disse solo a Craxi: “Vuoi bere qualcosa? Portate due bottiglie d’acqua”. Tutto qui, in una riunione di sette ore. Disse solo questo perché parlava sempre Galloni. Lui non profferì parola. Era una riunione inutile, nella quale loro si tenevano accuratamente lontani dal problema».
Come interpretasti il loro atteggiamento?
«Non potevano far nulla perché avevano, come priorità, il rapporto col Pci come rapporto dominante. Non rendendosi conto, così dicevo a Bisaglia, “che se i socialisti dicono di no, voi non potete fare niente con il Partito comunista, neanche andare a prendere un caffè. Senza il Psi non potete avere un rapporto con il Pci”».