Quando si parla di compiti in classe di italiano si ascoltano “diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira” , soprattutto quando si sconfina in quell’oggetto strano che si chiama “valutazione” e si discute sull'”originalità” dell’elaborato ( chi si pone il problema dell’originalità dell’elaborato ha un problema serio). Si potrebbe scrivere a lungo dei propri ricordi di scuola, delle versioni in classe, degli espedienti, delle risorse infinite, seppur non digitali, cui gli studenti della buona scuola d’antan facevano ricorso per prendere almeno un cinque allo scritto di latino e greco. Prendere cinque era un miraggio.
Seppure con valutazioni di fine anno non brillanti (un otto in qualche disciplina era un miracolo) i “vecchi esami di maturità” lasciavano spazio ai professori e tempo agli studenti. Nel corso dei cinque anni, gli studenti potevano permettersi il lusso di essere promossi con voti “bassi” e prendere sessanta alla maturità. Basso e alto sono prospettive: oggi per un sei si piange, ieri si ringraziava la Madonna di Pompei. I contesti non sono comparabili, quindi non facciamo paragoni: rimane il fatto che, fino alla fine degli anni 90, agli studenti si concedeva tempo per “crescere” in vista della fine del Liceo. Ora già alla fine del terzo anno, quando si procede all’attribuzione del credito scolastico, che io abolirei motu proprio, si chiede ai docenti di fare una valutazione “figurale”. In terza superiore, si deve intravedere la figura futurorum dello studente, gettare il “cuore oltre l’ostacolo” e valutarlo non tanto per quello che è , ma per quello che sulla base di “signa dei” potrebbe essere. Chi vive la scuola dal di dentro lo comprende bene, ma non sempre lo si può dire. Perché avvenga ciò è facile comprenderlo : i voti vanno da uno a dieci e la scala di valori si deve usare TUTTA , se no quelli “bravi” non possono prendere 100.
Il minimo è 4, grave insufficienza al di sotto della quale non si scende, se no la colpa è del professore e dobbiamo chiamare lo psicologo e il TAR. I voti valgono in realtà -2 , se proprio dobbiamo darci dei valori. Ma non è dei voti che vogliamo parlare, quello che mi interessa è il “Generale Tempo”. Se entro , e ci siamo entrati tutti, nel loop prestazione/ verifica/valutazione, parcellizzando per forza di cose il processo di sviluppo cognitivo, senza dare tempo di sbagliare e di correggere, tutto deve andar bene, ogni volta, ad ogni prova, fin da subito. Se qualcosa non funziona, la colpa è della Scuola: la scuola quando valuta gli studenti giudica se stessa e chi ha la forza di “dimostrare” di aver fatto tutto il possibile ? Gli studenti lo sanno e adottano la tattica della procrastinazione, si sforzano di “rimandare ” le verifiche fin quando non sanno al meglio quello che viene richiesto nella prova, non vogliono sbagliare, non solo perchè non tollerano la frustrazione, ma anche perchè hanno compreso i meccanismi di un processo in cui la vittima e il carnefice coincidono enon sono gli studenti, of course. Prima erano ruoli chiari e separati, ora la relazione è ambigua e sfuggente.
Se non si apprende è perché non si studia bene, ma se non si studia bene è perché chi doveva “farti studiare” non ha saputo farlo . Se voglio lasciare una persona che non amo più, forse non l’ho mai amata ( e sono un manipolatore narcisista) potrei dirgli “Non hai saputo farti amare, quindi ti lascio ed è colpa tua!” . La scuola funziona oggi un pò così. Se l’alunno non studia non è stato messo in condizione di farlo, se con chiarezza rivela che lo studente non sa scrivere ( se non sa scrivere è perché lo ha fatto poco e male e soprattutto non ha mai letto), con altrettanta chiarezza si sente dire che ha “messo in difficoltà” lo studente, che deve essere “felice” di venire a scuola.
Io vieterei fin dalla primaria “le schede” da completare : un reato penale.
” Elogio del copiare”- Parlare di didattica della scrittura induce a una riflessione preliminare e a una delimitazione del “campo” di interesse. Insegnare a scrivere, come ovvio, assume significati diversi e diversificati approcci in relazione alla fascia d’età di rifermento. Intendo fare riferimento alla didattica della scrittura come si configura e connota nel triennio del liceo. Arrivati in terza, molti giochi sono stati fatti, ma tutto, o quasi, è ancora possibile.
L’assunto di fondo che accomuna si sintetizza facilmente ” Questi ragazzi non sanno scrivere” con il suo retro pensiero ” Se non hanno imparato in dieci anni di scuola, come possono farlo negli ultimi tre?” Naturalmente ci sono vari livelli di in- competenza , da quella basica ” i fondamentali proprio!”fino a considerare quelle elevate, che si dovrebbero raggiungere in uscita e che spesso si pretendono già possedute. Va riconosciuto che “saper scrivere” è una competenza complessa, che non si può definire in astratto, ma che si connota in relazione alle diverse tipologie testuali , ai diversi bisogni comunicativi, a situazioni e configurazioni che risentono di variabili non predeterminabili in senso assoluto. Partirei da una domanda, che mi sono posta e che ci porremo in Dipartimento di Lettere.
La prospettiva nomotetica non esiste, partiamo dalla nostra “autobiografia” di docenti di Lettere . Proporrò una riflessione ai docenti di lettere sul tema ” Quando e come ho imparato a scrivere?” Se lo proponessero a me, risponderei di stare ancora imparando e, quindi, di non poter partecipare a un esperimento paradossale. Potrei “narrare” la strada che ho percorso ad oggi e , quindi, ognuno potrebbe “raccontare” come, con chi e quando ha iniziato a maneggiare con sempre maggiore sicurezza le parole, fino ad innamorarsene e a pensare addirittura di poter insegnare quello che ha imparato. Comincio, quindi da me.
Ho imparato a scrivere “copiando” , con l’autorizzazione di un Maestro. Se ho imparato io e non solo, allora si può imparare. Non ho detto “insegnare”, ma imparare, che è diverso. La scrittura è artigianato: se vai a bottega da un falegname, ‘o Mast non ti spiega come si costruisce un tavolo o una sedia. ‘O mast lavora , ti chiede solo di passargli gli strumenti, tu guardi e col TEMPO impari ad usarli, anche diversamente dall’utilizzo che ne fa il tuo maestro.
A una classe di prima Liceo di tanti, tanti anni fa, il Professore Di Loreto spiegava, spiegava, spiegava, o meglio parlava, parlava. Eravamo ciuccissime, a vari livelli di ciucciaria, ma lui lo sapeva e non era un problema. Non era un problema nel senso che non si poneva il problema che , una sua alunna, io, prendendo appunti durante le sue lezioni dantesche , scrivesse invece di Epistola Cangrande della Scala, Epistola a CANTANTE della Scala. Se avesse pensato di partire dai famigerati “prerequisiti” saremmo ancora tutte nell’aula della prima Liceo. Non si può insegnare a costruire un tavolo, partendo dalle conoscenze di tutto quello che occorrerebbe sapere prima di iniziare. Quello che capimmo tutti era che per imparare bisognava saper usare “gli strumenti” e Michele Di Loreto arrivava ogni giorno a scuola con due borse cariche di libri per noi difficilissimi e sconosciuti. Le poggiava sulla cattedra e ce li distribuiva.
Roba tosta , che non si capiva proprio, noi ce li prendevamo e poi non ricordo, so solo che “Mimesis” di Auerbach e “L’autunno del Medioevo” di Huizinga cominciarono a girare tra le mani di ragazzine che , in mancanza di Barbara d’ Urso, leggevano di nascosto Liala. Era anche una cerimonia sacra, darci quei libri significava ammetterci alla mensa del Signore, non eravamo più “profani” . In prima liceo, ci arrivarono i libri della narrativa europea, tutto Moravia , il “programma “dell’Esame di Stato divenne una bibliografia sterminata . Non capivamo bene, ma la “zona di sviluppo prossimale” veniva sollecitata non ti dico come. L’assicella era elevata, ma non si chiedeva affatto che capissimo tutto e per noi non era un problema non capire.
Cominciammo a capire quando iniziammo a fare i “compiti in classe “. Se in seconda, avevamo già letto Pirandello ( quasi tutto, comprese le Maschere Nude che tanto impressionarono la professoressa di matematica per il titolo “scabroso”) , se avevamo già in qualche modo contestualizzato il 900 (sempre dalla Guida al 900 di Salvatore Guglielmino) e il compito in classe lo devi fare su un romanzo a tua scelta di Pirandello , è chiaro che qualcosa la sai, qualcosa la ricordi dalle lezioni del professore, qualcosa la “copi” dalla prefazione del romanzo per dare una cornice di senso al tuo compito in classe. Solo dopo molti anni scopri che rientrava nella tipologia testuale di saggio breve di critica letteraria. Com’è che a nessuno veniva in mente che quei compiti non si potevano fare? Com’è che abbiamo paura di tutto? Ci dobbiamo liberare , per farlo dobbiamo “avere il coraggio” di chiedere agli studenti quello che “non ci possono dare”.Certo il professore Di Loreto non “interrogava” e quindi i voti all’orale erano un “non problema”. Forse che alcuni illuminati utilizzavano didattiche “innovative”? Forse sì, sicuramente sì. Non c’erano neanche le Prove INVALSI, ma ,su questo, ne parliamo alla prossima.