Mimì scavava tra i piaceri e le miserie della plebe. Si sentiva erede di Boccaccio, ebbe una musa, quella era la plebe. Ma chiedersi quanto la sua trasposizione letteraria corrispondesse alla plebe reale del Dopoguerra, cioè quanto fosse realistica, a questa distanza è abbastanza insensato. Quei miserrimi così radicati nella corporeità, agiti dalla fame e dalla lussuria, mossi da innocenza e vergogna, stretti tra culto del denaro e quel senso dell’onore che si riscatta battendo o ammazzando una femmina, sono una creazione.
Com’è una creazione il teatro tragico e comico, dove vivono molti dei personaggi: Nofi. Il mitologico agro campano dove Mimì aveva radici ben piantate e dove, sulla pagina, si parla una lingua scolpita e senza fronzoli, “icastica come il latino” , secondo la dichiarazione d’intenti resa dall’autore a meno di trent’anni. Mimì ha doppiato il
suo primo centenario nel 2021 e veniva dal medioevo cristiano, aveva scelto come maestro Boccaccio, era un erede del “Cunto delli cunti” di Basile e del suo fiabesco omaggio alla regalità della plebe napoletana. Esordì
al tempo dei neorealisti senza diventarlo, ha scritto Ruggero Guarini celebrandolo in apertura del Meridiano Mondadori, perché Lo Strega con “Ninfa plebea”nel 1993. Coltivava un’immagine di sé “ selvatica”, ma era consapevole dello spessore letterario che andava cercando il suo è semmai “realismo creaturale”. Una dimensione a-ideologica in cui il divino abita anche la creatura più sciagurata e indecente. Se cercate un ritratto del giovane artista di famiglia povera, sbucato fuori dalle macerie della guerra, lo troverete ben tratteggiato da Francesco
Durante, curatore di quel Meridiano. A lui, grande esperto di letteratura americana e traduttore di John Fante, improvvisamente morto nell’agosto del 2019, si deve il rilancio dell’astro offuscato di Domenico Rea che, con “Ninfa plebea”, nel 1993 vinse il premio Strega a settantadue anni. Mimì era stato un ragazzo che coltivava
un’immagine di sé “selvatica”, ma era perfettamente consapevole dello spessore letterario che andava cercando nutrendosi di grandi classici. Nel 1946 scriveva infatti al suo editore, con piglio smargiasso: “Non aspettatevi dunque un romanzetto alla Moravia, alla Piovenina, alla Pratolina, alla complessa storia delle sporcizie dei sensi,
cose troppo vecchie. Io discendo da ben altri sacri coglioni, i più grandi del mondo: Boccaccio, Ariosto, Cocaio, Manzoni, Settembrini, Verga, Cervantes, dove poteva entrare anche Hemingway se avesse avuto cultura e
non solo ‘il dono’”. Il libro in cottura al momento era “Spaccanapoli”, la raccolta di racconti uscita nel 1947
con un titolo geniale suggerito dall’editore. Rea, che era partito per Milano nel 1945 pagando un passaggio in autotreno con dieci chili di maccheroni, al nord aveva resistito solo un anno, ma aveva fatto in tempo a cono-
“Non aspettatevi un romanzetto alla Moravia, alla Piovenina, alla Pratolina. Io discendo da ben altri sacri coglioni: Boccaccio, Ariosto, Cervantes” Montale, Anceschi, Gadda, Aligi Sassu, Manzù e molti altri. Quando arrivarono le prime copie del libro e l’assegno della Mondadori era già tornato al paese, Nocera Inferiore.
Si era alla vigilia di Natale e al suo editore scrisse: “Padre, madre, sorelle, cognati, nipoti, amiche, serve, amici, nemici e puttane, tutti ballavano e ci stavamo cacando nei calzoni e nelle mutandine dalla gioia. Mio
caro, mio buon don Alberto (Mondadori n.d.r), lo spagnolo, il lombardo in forma di napoletano, vi ho gettato, e con me gli altri, ‘miliune ’e vase’”. “La maschera”, come l’avrebbe poi definito Domenico Rea nel 1993, quando vinse il premio Strega con “Ninfa plebea”(Olycom) ta Raffaele La Capria, era questa: il “selvatico” e
il letterato finissimo abitavano, in modo più o meno turbolento, nella stessa persona che con gli anni divenne un dandy. E non deve stupire l’auto-accostamento a Hemingway. La prosa di Mimì Rea, almeno del primo,
quello di “ Spaccanapoli” e di “Gesù fate luce”, viene dal profondo dei secoli ma è modernissima, asciutta, sta in piedi da sé senza spiegare nulla. Solo che lui, a sottrarre, aveva imparato da Boccaccio al quale, nel 1958,
dedicò un saggio straordinario, illuminandogli anni napoletani dell’autore del Decameron.