“In ogni essere umano esiste il bene e il male, anche nei peggiori criminali. Ognuno ha in sé una scintilla di Dio, a noi il compito di farla risplendere”. Cosimo Rega lo disse qualche anno fa, quando da autore-attore lavorò con la compagnia teatrale Stabile Assai del carcere di Rebibbia, interpretando Paolo Borsellino in “Il coraggio della legalità”,
Rega, tra i protagonisti anche di “Cesare deve morire”, film dei fratelli Taviani che nel 2012 ha vinto l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, raccontò di come sia possibile sopravvivere al ricordo di quello che si è stati e di ciò che si è commesso: “Non posso dimenticare di essere stato un camorrista. Oggi, guardandomi indietro, vorrei prendere quel ragazzo e dirgli di fermarsi. Ma non posso, e oggi è giusto che io conviva con il rimorso”.“L’arte, la cultura, il teatro, l’amore della mia famiglia, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti”: così parlava Cosimo Rega, ucciso dal male dei mali nella sua casa di Roma a soli 69 anni. L’ultimo viaggio sarà verso la sua Angri: funerali nel pomeriggio di oggi 31 agosto. Il male, di tutt’altra forma, nella vita ‘precedente’ Rega lo aveva conosciuto bene, portandolo avanti con convinzione: allora il suo nome faceva spavento, risuonava tetro, lui era Sumino ‘o Falco, un boss.
La trasformazione da camorrista a ex camorrista cominciò il giorno della sentenza all’ergastolo: “Sapevo che mi avrebbero dato l’ergastolo, e andai a ritirare la sentenza con arroganza. La presi, e tutto cambiò quando lessi il codicillo che il giudice aveva aggiunto in fondo”. In quel codicillo era specificato l’isolamento diurno, la perdita della potestà genitoriale, la cancellazione anagrafica dal Comune di residenza, la perdita dei diritti, l’affissione della sentenza alle porte del Campidoglio e la pubblicazione sul giornale: “Io, che fino ad allora avevo sempre voluto apparire, diventai in quel momento vittima proprio dell’apparire. Parlai con la mia famiglia, che non sapeva veramente cosa avessi fatto e nemmeno chi fossi. Mia figlia mi venne incontro e cominciò a parlarmi di quello che avremmo potuto fare in appello. Io la fermai e, per la prima volta, raccontai a lei, al fratello e a mia moglie tutto quello che avevo fatto. Vidi la delusione nei loro occhi e pensai di averli persi per sempre: fu quella la sentenza più dolorosa che potessi ricevere, e in quel momento decisi che sarei cambiato. Dissi a mia moglie che era libera, perché non volevo che anche lei scontasse la mia pena, ma lei rispose: ‘Credi che un muro di cinta possa dividere la nostra famiglia?’”.