Del «mattatore», appellativo che lo ha sempre accompagnato dal 1959 quando ebbe grande successo televisivo in uno spettacolo dallo stesso titolo che poi traslocò nella riuscita commedia di Dino Risi, non è facile dare una sola definizione: gli riusciva tutto e apparentemente senza sforzo.
Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo e svelò nella sua autobiografia i tarli dell’anima, si scoprì la fatica della perfezione, l’infaticabile ricerca del dettaglio, la necessità di superarsi ogni volta con precisione maniacale.
Si è detto che aveva personalità bipolare e si descrisse malato di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la propria immagine pubblica. Eppure era felicemente ammalato di vita, sprizzava giovialità, fisicità, intelligenza e per questo fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice esecutore. Aveva fin da giovane la presenza scenica del prim’attore, ereditava il piglio roboante della generazione di Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), usava il corpo come strumento della sua arte.
Prestante e bello, da ragazzo era arrivato a disputarsi lo scudetto del basket universitario con la società sportiva
Parioli, ma il teatro ebbe presto la meglio, visto che già svettava tra i compagni di corso all’Accademia d’arte drammatica. In piena guerra, nel ’43, debuttò a Milano con Alda Borelli nella «Nemica» di Niccodemi, ma fu all’Eliseo di Roma, in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fece notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo.
Se sul palcoscenico non ha mai avuto difficoltà a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci furono Luchino Visconti, il compagno d’Accademia Luigi Squarzina e più tardi Giorgio Strehler), al cinema dovette passare per piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da «villain» e seduttore pericoloso come in «Riso amaro» di Giuseppe De Santis nel 1949. Ma nel decennio successivo fu il teatro a mantenere alta la sua popolarità: fra il ’52 e il ’56 la sua lettura di Shakespeare (prima «Amleto» e poi «Otello”) fecero storia così come l’”Orestiade» di Eschilo con la regia di Pasolini. Gassman sembrava un dio greco, l’incarnazione del teatro, svettava in un’Italia ancora piegata sotto le conseguenze della guerra persa.
Ma il cinema, nella persona di Mario Monicelli, gli offrì l’occasione di essere «altro». Ne «I soliti ignoti» (1958) incontrò il successo nel modo meno atteso: con Peppe «er Pantera», pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indossò una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per anni.
Fu l’inizio di un’escalation inarrestabile che lo consegna alla storia della commedia all’italiana, uno dei «quattro colonnelli» della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi.
Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come Dino Risi, Luciano Salce, Luigio Zampa, Ettore Scola, con Monicelli in testa. Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul “Miles Gloriosus” plautino, così come Risi gli offrì lo spaccone disperato de «Il sorpasso», mentre Scola fu suo complice in tutto l’itinerario della maturità da «C’eravamo tanto amati» a “La famiglia”.
Meno nota, ma non meno intensa è la carriera internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali e, dopo la rivelazione in «Guerra e Pace» (1956), dagli anni ’70
in poi avrà i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, André Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson.
Si proverà anche come regista in proprio, riversando una buona dose di autobiografia in tentativi ambiziosi come «Kean» o “Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto” in coppia con Paolo Villaggio.
Chiuderà la carriera là dove l’aveva iniziata, in palcoscenico, tra l’intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della «Divina Commedia» e lo spettacolo “Ulisse e la balena bianca” che è una sorta di testamento artistico ed esistenziale. Nato nel 1922, sognava di morire in scena e per poco non ci è riuscito. Spirito irregolare e controcorrente, ha dato scandalo nella vita privata con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme. Spirito inquieto, paradossalmente è stato il meno «italiano» dei nostri grandi attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava.
Sognava un suo teatro ma solo dopo morto il Quirino di Roma gli è stato intitolato; meritava l’Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di «Profumo di donna» e si dovette accontentare di un premio a Cannes (per lo stesso film). La Mostra di Venezia gli ha dato il Leone d’oro alla carriera nel 1996, ma poteva accorgersi di lui ben prima. È stato un gigante solo e forse proprio questo enorme vuoto che lasciava ogni volta che usciva di scena lo rapiva e terrorizzava insieme. Di certo è il sentimento che lascia nel cinema e nel teatro italiano anche oggi. Sulla sua lapide sta scritto: «Non fu mai impallato».