Il decalogo è la “Costituzione” del popolo di Dio. La storia di questa regola di vita religiosa e sociale è legata a diverse epoche e spesso contrastanti tra di loro. In primo luogo, bisogna evidenziare che il testo biblico non parla mai di dieci comandamenti, ma di dieci parole, e che questo dato fu reso alla perfezione dalla traduzione greca, usata solo al plurale, déka logoi, le “dieci parole”, passata dai Settanta ai Padri della Chiesa. Al singolare dekalogos, si trova per la prima volta in Clemente Alessandrino e in Tertulliano. Queste, sono le solenni parole pronunciate da Jahvè sul monte Sinai per stipulate un patto di Alleanza con il suo popolo. Di questo patto di Alleanza, nei primi cinque libri della Bibbia, abbiamo numerose versioni, molto diverse le une dalle altre. Le dieci parole del patto di Alleanza sono contenute nella Torah e, com’è noto, il racconto biblico attribuisce la rivelazione del decalogo alla figura di Mosè, dunque alla fase in cui Israele non era ancora penetrato in Palestina, fase che storicamente corrisponde al XIII secolo a.C. Quali sono dunque queste norme rituali? Abbiamo già osservato che ne esistono diverse versioni; ma la critica biblica è riuscita a individuare il testo più antico, che ci fa risalire ai tempi del nomadismo. Il testo lo troviamo nel libro dell’Esodo (c. 34, vv. 14-26). Ecco come doveva essere articolato nella sua forma primitiva:
- Tu non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso.
- Non ti farai un dio di metallo fuso.
- Osserverai la festa degli azzimi. Per sette giorni mangerai pane azzimo, come ti ho comandato, nel tempo stabilito del mese di Abib; perché nel mese di Abib sei uscito dall’Egitto.
- Ogni essere che nasce per primo dal seno materno è mio: ogni tuo capo di bestiame maschio, primogenito del bestiame grosso e minuto. Il primogenito dell’asino riscatterai con un altro capo di bestiame e, se non lo vorrai riscattare, gli spaccherai la nuca. Ogni primogenito dei tuoi figli lo dovrai riscattare.
- Nessuno venga davanti a me a mani vuote.
- Per sei giorni lavorerai, ma nel settimo riposerai; dovrai riposare anche nel tempo dell’aratura e della mietitura.
- Tre volte all’anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio, Dio d’Israele.
- Non sacrificherai con pane lievitato il sangue della mia vittima sacrificale; la vittima sacrificale della festa di Pasqua non dovrà rimanere fino alla mattina.
- Porterai alla casa del Signore, tuo Dio, il meglio delle primizie della tua terra.
- Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre.
Quando gli Ebrei superarono la fase nomade, divenendo sedentari e coltivatori, il decalogo iniziò a prendere forma scritta. A questo periodo si ricollega il decalogo vero e proprio, che trasforma quasi tutte le norme più antiche, divenute ormai incomprensibili, e ne aggiunge delle altre, moralmente più elevate. Del nuovo decalogo si hanno due versioni non sempre identiche, che possiamo attribuire al periodo che va dal VII al IV secolo a.C. La prima versione, e anche la più antica, è riportata nel Deuteronomio (c. 5, vv. 6-21), è assegnabile al Documento Deuteronomico e che può risalire già all’epoca del re di Giuda Giosia, fine del VII secolo a.C. La seconda versione che è trascritta nell’Esodo (c. 20, vv. 3-17), è attribuibile al Documento Sacerdotale e che può risalire al periodo post-esilio, cioè un paio di secoli dopo la caduta di Gerusalemme nelle mani dei Babilonesi nel 586 a.C. Il primo aspetto interessante è che rispetto alle due versioni dell’Antico Testamento, nella versione mnemonica del Catechismo della Chiesa Cattolica, il comandamento “Onora il padre e la madre” è il quarto e non il quinto. Come raccapezzarsi? La Chiesa, nella catechesi, non ha sempre numerato i comandamenti in modo uguale. Dopo Sant’Agostino il primo e il secondo comandamento sono stati raggruppati in uno solo. E così, il nostro quarto comandamento è il quinto nella Scrittura; nono e decimo, invece, sono un comandamento solo nella Bibbia; sono stati sdoppiati dalla tradizione cristiana per raggiungere il numero biblico dei dieci comandamenti. Questa versione è stata elaborata e abbreviata dal Concilio di Trento (Sessione IV, canone 19). Certo, sarebbe appassionante poterci trattenere più a lungo su l’evoluzione storica del decalogo e quello che ne prolunga la validità, ma non è questa la sede per un’analisi approfondita di tutto il decalogo poiché ciò che qui ci interessa maggiormente è l’origine e il contenuto della quarta parola o quarto comandamento. A un’attenta analisi si evince che il rispetto di questo comandamento procura, insieme con i frutti spirituali, dei beni materiali. L’importanza di questa norma è spiegata in modo piano e limpido dalla catechesi della Chiesa Cattolica. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, questo comandamento indica l’ordine della carità. Dio ha voluto che, dopo di lui, onoriamo i nostri genitori ai quali dobbiamo la vita e che ci hanno trasmesso la conoscenza di Dio. Siamo tenuti a onorare e rispettare tutti quelli che Dio, per il nostro bene, ha rivestito della sua autorità. Questo comandamento, che costituisce uno dei fondamenti della dottrina sociale della Chiesa, si rivolge espressamente in ordine alle loro relazioni con il padre e la madre, essendo questa relazione la più universale. Infatti, un uomo e una donna uniti in matrimonio formano insieme con i loro figli una famiglia. Questa istituzione precede qualsiasi riconoscimento da parte della pubblica autorità; si impone da sé. Creando l’uomo e la donna, Dio ha istituito la famiglia umana e l’ha dotata della sua costituzione fondamentale. I suoi membri sono persone uguali in dignità. La famiglia cristiana è una comunione di persone, segno e immagine della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua attività procreatrice ed educativa è il riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è la cellula originaria della vita sociale. È la società naturale in cui l’uomo e la donna sono chiamati al dono di sé nell’amore e nel dono della vita. L’autorità, la stabilità e la vita di relazione in seno alla famiglia costituiscono i fondamenti della libertà, della sicurezza, della fraternità nell’ambito della società. La famiglia è la comunità nella quale, fin dall’infanzia, si possono apprendere i valori morali, si può incominciare a onorare Dio e a fare buon uso della libertà. La vita di famiglia è un’iniziazione alla vita nella società. Per tutto il tempo in cui vive nella casa dei suoi genitori, il figlio deve obbedire a ogni loro richiesta motivata dal suo proprio bene o da quello della famiglia. Con l’indipendenza cessa l’obbedienza dei figli verso i genitori, ma non il rispetto che a essi è sempre dovuto. Il comandamento ricorda ai figli divenuti adulti le loro responsabilità verso i genitori, nella misura in cui possono, devono dare loro l’aiuto materiale e morale, negli anni della vecchiaia e in tempo di malattia, di solitudine o di indigenza (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2197 – 2218). Questo comandamento: “Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio”, dunque, è espresso nella forma positiva di un dovere da compiere, cioè non contiene una proibizione, e comporta una ricompensa. Questo però non spiega ogni cosa. C’è da chiedersi, infatti, come mai non compare nella versione più antica del decalogo? Che cosa vuole farci comprendere il termine onore, e perché onorando i propri genitori si ottiene una ricompensa materiale. Che cosa intende il termine paese, una città, un territorio, o qualcos’altro? Da dove arriva quindi questo comandamento? A queste e a tante altre domande tenteremo di dare una risposta. Il decalogo non è un processo unitario ma è un lento lavoro di revisione, che si è concluso soltanto pochi secoli dell’inizio dell’era cristiana. Più redattori hanno ripreso dei materiali molto più antichi che hanno inglobato nel testo breve del decalogo per adattarlo alle nuove esigenze e l’esempio più lampante è proprio il quarto comandamento. Infatti, mediante documenti extra biblici è possibile portare un confronto con questo comandamento biblico. I documenti a confronto sono dei testi siriani giuridici del XIII secolo a. C., in particolare disposizioni testamentarie, rinvenuti verso la metà del secolo scorso sia nella città di Ugarit (l’odierna Latakia), sia nella città di Emar sull’Eufrate, quando fu edificata la grande diga di Tabqa. Questi testamenti subordinano la trasmissione ereditaria dai genitori ai figli al fatto che questi abbiano “onorato” (verbo kabadu), nei testi di Ugarit, oppure “temuto” (verbo palahu), nei testi di Emar, il padre e la madre. Questi testamenti del XIII secolo a.C., come ha osservato Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Roma-Bari 2012, rappresentano qualcosa di innovativo, riflettendo l’impatto che i fenomeni di evoluzione socio-economica e di crisi demografica, caratteristici della tarda Età del Bronzo, ebbero sull’assetto tradizionale della società siriana. Il sistema tradizionale era basato su una trasmissione automatica dell’eredità nell’ambito della famiglia naturale. Il patrimonio era trasmesso di padre in figlio, e in caso di più fratelli il primogenito riceveva una quota privilegiata (doppia di quella dei cadetti). Ciascuno già al momento della nascita aveva una collocazione nota nelle gerarchie e nei diritti familiari; il patrimonio doveva rimanere in possesso della linea ereditaria maschile e non poteva essere venduto né altrimenti alienato.
Non c’era neppure bisogno di redigere testamenti. Le difficoltà economiche e demografiche che si fanno particolarmente acute alla metà del II millennio a.C. portano a un diffuso ricorso alle vendite di terre (anche al di fuori dell’ambito familiare) e alle adozioni (che intendono tutelare piuttosto i vecchi adottanti privi di prole che non i giovani adottati). Tra i due fenomeni si stabilisce uno stretto legame, perché le adozioni mascherano spesso delle vendite “a babbo morto”, o più esattamente dei prestiti da recuperare attingendo all’eredità o meglio acquisendola totalmente. Accanto e oltre la crisi economica (indebitamento diffuso dei piccoli proprietari) e demografica (ricorso all’adozione da parte di vecchi rimasti soli e sprovvisti di assistenza), si fa strada una concezione più individualistica dei diritti di proprietà, che mette in crisi gli automatismi familiari. Da un lato il capo-famiglia, da puro gestore di una proprietà che appartiene alla famiglia nel suo complesso, e che egli non può alienare a suo piacimento, diventa proprietario a titolo personale e può dunque disporre delle terre anche escludendone i figli naturali. D’altro lato i figli, non più garantiti dagli automatismi tradizionali, devono conquistarsi l’eredità col loro comportamento, in una situazione competitiva che premia i più abili e dotati di iniziativa e marginalizza i meno capaci o meno fortunati. I testamenti del XIII secolo a.C. registrano queste tendenze, già in generale con la loro stessa frequenza, resa necessaria soprattutto da casi anomali. Molti dei testamenti riguardano casi di figli adottivi che vanno ad affiancarsi a figli naturali, o casi di mogli rimaste vedove, e tendenzialmente poco protette da figli non loro. Più nel dettaglio, è un segno dei tempi nuovi, una norma che va contro la tradizione e cioè quella che erediterà “colui che avrà onorato (come si dice a Ugarit) oppure temuto (come si dice a Emar) i genitori”: non solo obbedendo e rispettandoli, ma soprattutto prendendosene cura materiale, mantenendoli in vita. Siamo di fronte, come si è visto, a un serio deterioramento della struttura familiare tradizionale, con meccanismi personali e finanziari che subentrano a quelli parentali, non più adeguati. I genitori si preoccupano di assicurarsi una tranquilla vecchiaia; nel caso che abbiano figli naturali, facendo capire loro che la “riscossione” dell’eredità non è più automatica come una volta ma subordinata alla cura che essi avranno dei genitori stessi e che può essere annullata fino all’ultimo momento; nel caso poi che non abbiano figli naturali, adottandone di legali in cambio o di una somma di denaro una tantum o di una cura e mantenimento vitalizi. I figli a loro volta adeguano il loro comportamento sia etico sia economico alla necessità di costituirsi un patrimonio che non riceveranno più automaticamente. Il tutto è complicato dalla pluralità di mogli, non tanto per poligamia (che resta limitata, di fatto, alla classe più alta), ma soprattutto per ripudi da sterilità o per morte prematura (specie da parto) delle mogli ai mariti, che da vecchi vorranno tutelare l’ultima moglie rispetto ai figli di primo letto. Soprattutto a Emar sono tipici i testamenti in cui il capofamiglia nomina la moglie (presumibilmente, l’ultima, cioè non necessariamente madre dei figli) “padre e madre” dei figli, assegnando a questi l’obbligo di “temerla” anche dopo la sua morte se vorranno ricevere davvero l’eredità. Veniamo adesso al testo della Bibbia.
Il verbo biblico per “onorare” è kabed, (in ebraico parlato significa sia “ricco” sia, più letteralmente, “uno che sa dare peso alle cose”) ed è anche etimologicamente lo stesso di Ugarit. È da notare che versione biblica più antica (Dt 5, 6-21) dice appunto “onorare” come si usava in Siria-Palestina, mentre una delle versioni post-esiliche dice “temere” per chiaro influsso babilonese. È evidente, dunque, che il contenuto testamentario dei documenti del XIII secolo a.C. (un contenuto condizionale, in sostanza: onora il padre e la madre, se vuoi ricevere l’eredità) è in qualche modo echeggiato dalla formulazione biblica, che non enuncia la norma in forma secca (come avviene per gli altri comandamenti), ma ne chiarisce le benefiche conseguenze. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio, che è la formulazione del Deuteronomio, chiaramente prospetta eredità fondiaria (la “terra”, è quella agricola), appena mascherando il meccanismo testamentario dietro l’ideologia che attribuisce a Jahvè l’atto di trasmissione. È dunque chiaro che la quarta parola o quarto comandamento si diffonde in una congiuntura evolutiva della società ebraica, in un deterioramento dei rapporti interni alla famiglia tradizionale (dove sarebbe stato superfluo e ben strano), e in presenza di una complessa modalità di trasmissione ereditaria. Più che di una norma etica di carattere generale, si tratta dunque piuttosto di un suo surrogato legale: tra genitori e figli che sono tali più in senso giuridico che non naturale, si impone l’obbligo contrattuale di onorare anche la matrigna, o anche i genitori adottivi, come se fossero i propri.