La nostalgia è un sentimento infame. Ti mette sul naso gli occhiali rosa che ti fanno vedere tutto sotto una luce che dà molta più giustizia a certi periodi della vita di quanta ne meritino, ti piglia per la gola, ti fa pensare che forse si stava davvero meglio quando non eravamo iperconnessi – una di quelle cose che ti vergogni di pensare a trent’anni perché ti sembra di sentire i tuoi genitori. Basta un appello alla razionalità per rendersi conto che la nostalgia amplifica semplicemente quello che c’era di bello in una fase della vita con mille sfumature – ed è giusto così.
Giorgio Vanni esiste unicamente in questa dimensione. Cinquantanove anni di ragazzo, passato praticamente inosservato a Sanremo ’92 nonostante scrivesse già testi per alcune star del panorama musicale dell’epoca, nell’estate del ’99 travolge completamente l’Italia da nord a sud dando una veste nuova alle sigle del carosello di cartoni animati che andava in onda su Italia 1 – una veste dance, più grintosa, fatta di frasi in inglese sparate al momento giusto e quintali di autotune per dare un sound più psichedelico alle canzoni. Sono i tempi del colpo di coda di “Bim Bum Bam” e del passaggio al nuovo millennio, e milioni di bambini si sentono partecipi di una piccola rivoluzione che in alcuni casi sarà il trampolino di lancio per una passione lunga una vita.
È questa passione che, chiusure permettendo, porta da anni gli stessi milioni di bambini ormai cresciuti ad affollarsi sotto i palchi delle fiere del fumetto e delle piazze che ospitano i live di Giorgio Vanni. Domenica scorsa è stata la volta di Parco dell’Irno, luogo ormai familiare per il cantante, che si è riempito fino a straripare di trentenni (e oltre) pronti a perdere la voce per potersi riprendere anche solo per un istante la stessa sensazione di quando si mettevano via i libri di scuola per non perdersi neppure la sigla del cartone del momento. Se si chiedesse a ciascuno dei ragazzi presenti qual è la sigla del cuore, quella che meglio rappresenta quei momenti in cui eravamo felici e lo sapevamo benissimo, si potrebbe rimettere insieme tutto il percorso artistico di Giorgio Vanni e si tornerebbe a casa con una cinquantina di storie tutte diverse.
In un’epoca come quella che stiamo vivendo da Millennial, con la certezza del futuro che vacilla senza che ci sia stato dato neanche il tempo di costruirla, se non si può tornare a quei momenti di felicità si può sicuramente essere grati che ci siano stati. E il concerto di domenica scorsa è stato l’ennesima, potentissima onda di gratitudine sia verso Giorgio Vanni come artista, che continua a mettersi in gioco tra web e fiere restando sulla cresta dell’onda in un periodo in cui si sgomita fino al parossismo pur di restare rilevanti, ma anche per ciò che Giorgio Vanni rappresenta.
Al di là delle facili ironie sui testi delle sigle stesse, alcune ai limiti del surreale o comunque buffe o stranianti se ascoltate con un minimo di raziocinio, Giorgio Vanni riesce a centrare il bersaglio soprattutto per la grande autoironia che dimostra sia durante i concerti che con i contenuti postati sul web o nelle interviste. E forse è proprio questo che lo mantiene – almeno per ciò che è dato da vedere al pubblico – eternamente giovane. Non sono le rughe, gli acciacchi o la stamina a definire questa giovinezza: è l’idea di circondarsi della bellezza esuberante di chi non ha paura di mantenere vivo il proprio bambino o ragazzino interiore.
C’è una gioia di vivere senza tempo e senza età, ai suoi concerti. C’è il fomento – tantissimo – perché le sue sigle sono fatte per ballare, sia nelle piazze sia saltando sui divani e i letti in barba ai divieti di mamma o papà. E c’è la certezza che, incrociando lo sguardo del vicino, tutte le possibili divergenze si appianano nel nome della condivisione di un desiderio collettivo di essere felici senza pensare alle conseguenze.