Cent’ anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo.
Oggi in Italia ci sono gli estimatori di Mussolini: pochi, ma non pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non moltissimi. E poi c’è la maggioranza. Che crede, o a cui piace credere, in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria.
La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le aveva azzeccate tutte; e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi. Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù. Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per raccogliere «qualche migliaia di morti» ed essere ammessi al tavolo della pace.
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Peccato, davvero. In realtà, non è andata così. E non solo perché i tedeschi avrebbero fatto volentieri a meno del nostro ingresso in guerra: sapevano di doverci sostenere su ogni fronte, come poi hanno fatto – dall’Africa alla Grecia – perdendo tempo, risorse e uomini preziosi. E non solo perché la frase sulle «migliaia di morti» tradisce una volgarità d’animo e un cinismo rivoltanti.
La guerra non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo giorno. Il fascismo nasce con la guerra e muore (purtroppo non del tutto) con la guerra.
L’idea della violenza come levatrice della storia, della guerra come modo di imporre una nazione su un’altra, e una razza sull’altra, accompagna il fascismo dalla sua nascita alla sua morte (apparente). Il germe del fascismo è già negli spaventosi massacri della Prima guerra mondiale – «trincerocrazia!» ringhia il Duce -, e nei torbidi dei primi anni del dopoguerra, segnati dagli scioperi rossi e dalla durissima reazione nera.
Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con il gas; fa bombardare paesi inermi in Spagna; poi ordina le sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia, regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei nostri soldati, ma dell’impreparazione, dell’insipienza, della miseria morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per vent’ anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso popolo. Non solo.
Nel 1938, lo «statista» Mussolini e i suoi uomini avevano già provocato la morte di tutti i principali esponenti dell’opposizione: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola – aggredito cento contro uno -, Carlo e Nello Rosselli. Avevano bastonato un prete, don Luigi Sturzo.
Avevano aggredito un santo, Piergiorgio Frassati. Avevano incarcerato uno statista vero, Alcide De Gasperi. Nessuno di loro era comunista. Anche se tra le vittime va ovviamente ricordato Antonio Gramsci, che si spense in clinica dopo tredici anni passati nelle carceri del regime, senza aver mai commesso un gesto violento, senza alcuna colpa che non fossero le sue idee.