Titulus è il termine generico con il quale i Romani definivano qualunque forma di iscrizione apposta su un oggetto di qualsiasi natura, ad eccezione dei papiri e delle pergamene. In senso ristretto, il termine individua la lastra di marmo o di altro materiale su cui era segnato il nome del proprietario di un immobile; su di essa poteva inoltre essere dichiarato a che titolo egli ne deteneva il possesso. Il termine titulus , dunque, indicava originariamente la tabella che, posta accanto alla porta di un edificio, riportava il nome del proprietario. Come accadde per gli adepti delle altre religioni straniere – Mitra, Iside, la Gran Madre, gli dèi siriaci, Javhè degli ebrei – la comunità cristiana dovette avere i suoi luoghi di culto, differenti dai piccoli santuari degli dei pagani, sovvenzionati dallo Stato.
Si vennero così a formare le ecclesiae domesticae, o centri comunitari, cioè, luoghi fissi di culto all’interno di una casa privata con affisso al suo esterno il nome del proprietario, il titulus appunto. I tituli privati comprendevano, oltre alla sala cultuale e ai locali annessi per usi liturgici, anche l’abitazione privata. In seguito nacquero i tituli di
proprietà della comunità, che conservavano il nome del fondatore o del donatore della casa. I tituli, come le odierne parrocchie, erano soggetti alla giurisdizione della Chiesa. Capo della comunità ecclesiale era il presbitero coadiuvato da ministri a lui sottoposti. I vari tituli, anche se identici dal punto di vista funzionale e della finalità, a causa della loro diversa origine e datazione, non si possono considerare come un gruppo omogeneo. Sia
le domus ecclesiae sia i tituli prendevano generalmente il nome dal primitivo proprietario dell’edificio e lo conservarono anche con la costruzione di una vera e propria chiesa in epoca successiva: per esempio il titulus Clementis, in origine proprietà di un certo Clemens, divenne poi l’ecclesiae Clementis, o “chiesa di Clemente”, e quindi l’attuale Basilica di San Clemente al Laterano. Di tutti questi luoghi di riunione possediamo due diversi elenchi, desunti dalle sottoscrizioni dei vari presbiteri nel corso dei due sinodi, svoltisi a Roma nel 499 e nel 595 d.C. Confrontando questi due elenchi, in certi casi si nota come il titulus, che nel primo sinodo portava il nome del fondatore o del donatore, nel secondo porta la dedica all’omonimo santo. Probabilmente ciò è dovuto al crescente
interesse per il culto dei martiri. Quelli più antichi si trovano generalmente in zone periferiche o popolari della città, mentre quelli nuovi creati dopo l’Editto di Costantino e Licinio del 313 d.C. ebbero tutti posizioni più centrali. Nel III secolo d.C. una migliore organizzazione della comunità cristiana e una migliore disponibilità economica posero le basi per un profondo cambiamento. Alcune domus ecclesiae, già di
proprietà privata, potevano passare per lascito, donazione o acquisto in piena disponibilità della comunità cristiana e altre se ne potevano aggiungere di nuova costruzione di proprietà della comunità. Così, prima della realizzazione di edifici esteriormente distinti da altri tipi di monumenti e adeguati al culto cristiano, la sede normale delle riunioni liturgiche fu la casa privata. I luoghi di culto non si differenziavano dalle altre fabbriche destinate ad abitazione. Questa situazione fu
comune in tutto l’Impero Romano. Le domus ecclesiae erano, pertanto, normali case di
abitazione adattate alla meglio per assolvere la nuova funzione. Esse dovevano far fronte
alle necessità di molti fedeli per il culto, la catechesi, l’assistenza sociale, l’amministrazione; erano acquistate dalla comunità cristiana o a essa donate dai fedeli benestanti.
Le domus ecclesiae ospitavano anche alloggi per il clero e depositi per ammassare cibo e vesti per i poveri. Si suppone che prima del 312 d.C., agevolata da una maggiore tolleranza religiosa, qualche comunità abbia potuto realizzare una semplice sala destinata unicamente al culto. Di norma, però, le comunità cristiane, per tutto il IV
secolo d.C., continuarono a usare, acquistare e adattare alle proprie esigenze le case ordinarie, quando si rendessero disponibili. In ogni caso, erano esclusivamente private, di dimensioni modeste e usate per la quotidiana vita domestica. Inoltre, sia i centri comunitari nati in case d’abitazione, sia le sale costruite apposta, per il loro aspetto dimesso, si mescolavano alle centinaia di case d’affitto, vecchie domus, magazzini e botteghe delle zone popolari. Grazie anche al limitato numero, solo venticinque nel IV secolo d.C., i centri comunitari si confondevano tra le 44.000 insulae di Roma. A dispetto di un gran numero di fedeli, il Cristianesimo non lasciò tracce nella Roma prima di Costantino. Queste installazioni, comunque, non ebbero conseguenze sull’urbanistica della città poiché gli isolati e le strade restarono effettivamente identici e i luoghi cristiani furono alla prova dei fatti inavvertibili dall’esterno aree urbane appartenenti già alla comunità pervenute da donazioni di fedeli facoltosi. Questi luoghi di ritrovo originariamente corrispondono, nella maggioranza dei casi, ad abitazioni unifamiliari. Ciò può spiegare la connessa causalità della sistemazione topografica degli edifici cristiani nell’Urbe del IV e l’inizio del V secolo d.C.