La rassegna “L’Essere e l’Umano” di Artenauta Teatro ha aperto ieri sera, nonostante le intemperie, con lo spettacolo “Danzando con il mostro”, per la regia di Serena Balivo, Mariano Dammacco e Roberto Latini, quest’ultimo già ospite del Teatro Diana di Nocera Inferiore nella prima e nella seconda edizione della rassegna.
Due attori in scena, vestiti da gran sera, interagiscono con una scenografia che simboleggia l’interiorità dell’animo umano e i flussi di coscienza da cui ognuno è travolto nel cercare di orientarsi nelle vite frenetiche e soffocanti che tutti – chi più, chi meno – vivono. I due attori si fanno da contraltare anche nelle energie che incanalano all’interno di questi personaggi ai quali il pubblico non può che sentirsi vicino: alla razionalità quasi stoica del personaggio di Latini si contrappone la nevrosi sotterranea pronta ad esplodere di Balivo, una nevrosi che emerge dalle parole trascinate e dai gesti a scatti, come se un meccanismo all’interno del corpo si fosse rotto.
Ed è proprio di rottura che parla “Danzando con il mostro” – non quel genere di rottura data dal vivere in condizioni socio-politiche che agli occhi di chi vive un’esistenza “media” può essere l’unica giustificazione al malessere, ma una sorta di tortura dell’acqua alla quale l’essere umano è continuamente sottoposto sotto il capitalismo. Un mondo, quello descritto nella pièce, basato interamente sulla performance, sul costruire ricordi di cui potersi vantare, sul nascondere il “mostro” in cantina, dove non può fare del male al corpo in cui inevitabilmente va ad abitare.
Cos’è, però, il mostro? Per sua stessa natura, ha molte facce. Il mostro può essere lo stigma sulla malattia mentale, che viene minimizzata attraverso un’insopportabile retorica di positività a tutti i costi, inviti a pensare che la morte sia sempre dietro l’angolo, continue esortazioni a nascondere il proprio disagio per apparire il più normali possibili. È il riempirsi di impegni per sfuggire a tutte le parti scomode dell’elaborazione del lutto, è la rabbia verso il prossimo esibita solo quando nessuno può giudicarla, è il negare a se stessi di aver bisogno di prendersi un momento per respirare a pieni polmoni. Ma come si fa a respirare a pieni polmoni se tutto ciò che ci entra è smog? Le scene che si susseguono in “Danzando con il mostro” sono la rappresentazione di questo continuo soffocamento di tutte le parti che potrebbero renderci meno performanti, meno appetibili, meno di compagnia.
L’atmosfera della pièce è delineata da un disegno luci di precisione millimetrica, che trasforma gli attori in silhouette illuminate attraverso una grande finestra – o la torre di un orologio – o disegna loro addosso contorni ed ombre innaturali, rossi come nella scena clou di un film dell’orrore, o freddi, come si trattasse di una visione infernale. L’atmosfera sinistra e inquieta intessuta dalle luci viene pienamente bilanciata dall’umorismo sardonico che caratterizza l’opera, un umorismo che non si risparmia la “caduta” nelle banali cattiverie che attraversano il cervello di tutti, ma che per pudicizia e costume sociale non si ammettono.
Oltre ai due attori è presente in scena un terzo elemento, una creatura liminale che osserva dall’esterno, e che man mano prende consapevolezza delle fragilità dei personaggi – una sorta di “spirito del tempo” che assiste impotente al passaggio dalla gioia e dall’intensità dell’infanzia all’apatia della vita adulta e infine al gran fracasso della rottura, che diventa così anche catarsi.
“Danzando con il mostro” è un viaggio nelle nevrosi e nei segreti dell’uomo medio, che punta dritto alla zona di comfort dello spettatore e la invade, costringendolo a riflettere su quanto si nasconde per paura di risultare “anomali”.