La visuale filosofica e teologica del padre della robo-etica Paolo Benanti, francescano del Terzo Ordine Regolare e docente alla Pontificia Università Gregoriana, può aiutarci a capire il significato etico e antropologico della transizione digitale.
” Il primo passo è accettare la necessità di un’etica all’interno del mondo tecnologico. Possiamo pensare che ogni strumento sia neutrale e l’unica cosa nel quale risiede la scelta etica sia il manicum, cioè quella parte dello strumento che è connessa alla mano: un modo latino per dire che l’unica questione etica è nel suo utilizzo, nel suo utilizzatore. La storia recente, però, ci ha insegnato che non è così. Usciamo da una pandemia in cui abbiamo preso il vaccino nell’ordine stabilito da un portale web, cioè da un algoritmo informatico che, in base a un suo criterio, ha detto chi andava prima e chi andava dopo. Allora l’algor-etica altro non è che il tentativo di vivere questa tecnologizzazione della società in modo non passivo ma attivo, definendo i valori fondanti della società. L’unico lato universale che perseguiamo è la libertà, quella facoltà umana che consente di scegliere tra tante azioni le diverse possibilità. Mediare tra il bene e il male e magari definire utilizzi leciti o illeciti della tecnologia è diventato impellente. Una tecnologia di per sé è stupida – la bomba atomica ha già rischiato di cancellarci dalla faccia della terra -, allora come creare una chiave universale? Questo desiderio di una macchina che non sia ingiusta, che non faccia discriminazioni, è già presente. Renderlo possibile e attuabile non è più un discorso di universalità, ma di tecnicalità: come tradurre questi principi in ricette che mandano avanti le macchine? Ecco la sfida dell’algor-etica su come renderla computabile per le macchine.
Queste nuove frontiere dell’intelligenza artificiale sono in grado di generare prodotti sintetici, cioè molto simili a quello naturale, senza esserlo. Il diamante sintetico sarebbe indistinguibile da quello naturale se non fosse per due caratteristiche: non ha difetti al suo interno e per legge ha inciso al laser un numero di serie. Tuttavia vale quanto un diamante reale ed è in grado di ingannarci. La domanda è: abbiamo il diritto a essere avvisati che chi interagisce con noi è una macchina e non un essere umano? Soprattutto i più fragili possono essere soggiogati da questi nuovi sistemi che non si stancano mai e sono sempre più invasivi. Se poi si va nella sfera politica per convincerci o nella funzione di governo per controllarci, ecco che entriamo nei peggiori incubi distopici della fantascienza. Lo strumento è potentissimo e per questo serve un’etica per renderlo compatibile con la vita che vogliamo vivere. La prima volta che, in una caverna, un membro della nostra specie ha preso in mano una clava, l’ha usata per aprire più noci di cocco o più teste dei nemici? Entrambe, probabilmente. Affermare che la tecnologia non può avere un uso negativo è voler ignorare la storia del genere umano. Metaverso non è esattamente quello che sogna Zuckerberg con Meta, ma una disposizione dei dati che produciamo in una maniera che simula la realtà in 3D con possibili sviluppi e tanti utilizzi. Ma può essere trasformata facilmente in un’arma molto potente. Il futuro è ambiguo e promettente nello stesso tempo. Non penso tuttavia che si possa parlare di esistenze digitali perché siamo fatti per vivere esperienze incarnate, non per vivere come copie. Fatemi fare un po’ il filosofo: Platone nella Repubblica ci dice che la vera conoscenza, e quindi la felicità dell’uomo, accade non quando si guarda l’ombra proiettata sulla caverna, ma quando ci si gira, si esce e si vede la realtà. Ecco, il metaverso rischia di essere una grande proiezione della realtà sul fondo della caverna. Ormai sappiamo bene che tutti i sistemi che ci hanno voluto inchiodare in fondo alla caverna hanno prodotto sofferenze e non ci hanno reso felici.