La Pasqua è un precetto, e il testo biblico lo impone come segno al quale il popolo dell’Alleanza dovrà dare la massima importanza (Es 13,9) o come un ornamento davanti ai propri occhi (Es 13,9-14) e come ricordo (Es 12,4; 13,9). Soprattutto a quest’ultimo termine il testo biblico assegna il compito di tradurre la portata salvifica della Pasqua.
Facciamo ora idealmente un pellegrinaggio a Gerusalemme in compagnia del piccolo Gesù per conoscere più da vicino come si celebrava il rito della Pasqua. Come ci ricordano i Vangeli, Gesù all’età di dodici anni sale la prima volta a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale con Maria e Giuseppe che lo praticavano ogni anno: “I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza” (Lc 2,41-42). Sicuramente la sacra famiglia fu ospitata in casa da qualche loro parente o da qualche loro conoscente per celebrare il rituale della cena pasquale. Già, ma come si svolgeva la cena pasquale? Fin dalle prime ore del mattino del giorno 14 di Abib (circa a metà aprile), in seguito chiamato Nisan, ogni minimo frammento di pane fermentato era fatto sparire da tutte le case ebraiche, essendo di stretto rigore per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l’uso del pane azzimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno aveva luogo l’immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L’immolazione era fatta nell’ingresso del Tempio, dal capo di famiglia o di gruppo che recava l’agnello. Il sangue degli agnelli era raccolto e quindi consegnato ai sacerdoti, i quali lo spargevano presso l’altare degli olocausti. Subito dopo l’immolazione, nell’ingresso stesso del Tempio l’agnello era spellato e privato di alcune parti interne, e dopo questa preparazione era riportata nella famiglia o nel gruppo a cui apparteneva. In quel pomeriggio gli ingressi del Tempio diventavano necessariamente un lago di sangue. Enorme, infatti, era l’affluenza di Giudei provenienti sia dalla Palestina sia dalla Diaspora, e non potendo gli ingressi del Tempio contenere tutti quelli che vi venivano a sgozzare l’agnello, si stabilirono, dalle ore due pomeridiane in poi, tre turni d’accesso, e fra un turno e l’altro si chiudevano le porte d’entrata. Per renderci conto di questo lago di sangue che bagnava i pavimenti e i muri del Tempio, Flavio Giuseppe ci fornisce casualmente un calcolo preciso fatto nell’interesse delle autorità romane ai tempi di Nerone, probabilmente nell’anno 65 d.C., da cui risulta che nel solo pomeriggio pasquale di quell’anno furono scannati ben 255.600 agnelli: “Ed essi, sopravvenuta la festa che si chiama Pasqua, nella quale si offrono sacrifici dall’ora nona fino all’undicesima (…) contarono duecentocinquantacinquemila seicento sacrifici” (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, VI, 423-424). A questo punto c’è una curiosità. Il profeta Ezechiele, ispirato da Jahvè, aggiunse altre norme al rito pasquale e da ultima c’è una singolare norma che riguarda le cucine del Tempio, dove erano cotte le carni sacrificali destinate ai sacerdoti. Esse, infatti, erano collocate vicino le camere sante dei sacerdoti, per impedire che le carni sacre potessero in qualche modo venire in contatto con il popolo che non erano abilitato a toccare e a consumare ciò che è sacro.
Altre cucine con fornelli, invece, erano poste in recinti agli angoli del cortile esterno il Tempio ed erano le cucine, dove i sacerdoti cuocevano le carni sacrificali per il popolo (cfr. Ez 41,19-21). Riportato in famiglia, l’agnello immolato era arrostito la sera stessa per la cena pasquale. Il rito della cena cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi regolarmente fino alla mezzanotte, ma talvolta anche oltre. A ciascuna mensa partecipavano non meno di dieci persone e non più di venti, che occupavano posto sui bassi divani sdraiandovisi per lungo in maniera concentrica alla tavola delle vivande: “(…) attorno a ogni sacrificio si raccoglie un gruppo di confratelli in numero non inferiore a dieci – perché non è lecito sedere da solo alla mensa rituale – e sovente essi raggiungono la ventina” (cfr. Flavio Giuseppe, op. cit., VI, 423-424). Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali mentre si recitavano gli inni dell’Hallel (o lode). La serie dei Salmi ebraici 113-118 (secondo la Vulgata 112-117) chiamata Hallel egiziano, la “lode dell’esodo”, per distinguerla dal Grande Hallel (Salmo 136) e dall’Hallel finale dei Salmi 146-150, era entrata nella liturgia delle grandi solennità, specialmente per la festa di Pasqua. Si cominciava servendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva sia la giornata festiva sia il vino; dopo di ciò si recitava il Salmo 113. Si recavano in tavola, quindi, insieme con il pane azzimo, erbe amare e una salsa speciale (haroseth) nella quale s’intingevano le erbe; dopo di ciò, si portava l’agnello arrostito. Si serviva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, dopo la domanda convenzionale del figlio, rispondeva spiegando il significato della festa ricordando i benefici del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dall’Egitto: “Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Es 12, 26-27). Dopo un breve discorso quindi si recitava il Salmo 114. Si consumava quindi l’agnello arrostito insieme con le erbe amare, mentre circolava la seconda coppa. Dopo aver mangiato tutto l’agnello, si recitava il Salmo 115 con cui cominciava il vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani ma non regolato da particolari cerimonie e costituito da vivande varie. A causa di questo versetto: “Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore”, il Salmo 116 era recitato quando passava da un commensale all’altro la terza coppa di vino. Questo gesto non è esclusivo del popolo ebraico. Nell’antico Oriente, infatti, per ringraziare la divinità si usava versare in libazione (offerta di bevande versate a scopo sacrificale) una coppa; la “coppa della salvezza” (ottenuta). Con l’atto di ringraziamento Israele attesta pubblicamente che Dio lo ha salvato; ed è questa la più alta espressione della sua religione. E lo è pure della religione cristiana. Certamente con tale sentimento Gesù recitò questo Salmo insieme ai suoi apostoli, dopo aver istituito l’Eucarestia (Mt 26,30). Divenuto preghiera di Gesù, nella notte in cui fu tradito, questo Salmo annuncia ora una speranza di vita e di gioia dalle dimensioni eterne. Il Salmo nel testo ebraico è unico, come vuole il senso, nella Vulgata invece forma, distinti, i Salmi 114 e 115. È impossibile, inoltre, dimenticare il Salmo 117, il più breve del Salterio.
Alleluia!
Lodate il Signore, popoli tutti,
voi tutte, nazioni, dategli gloria;
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno.
Questo piccolo canto di lode è una miniatura del genere innico. Il tema è quello dell’Alleanza tra Dio e Israele, simboleggiata attraverso due attributi divini fondamentali, l’amore e la fedeltà. Essi sono in pratica un’endiadi (una cosa con due parole) per esaltare l’eterna fedeltà di Dio, nonostante i tradimenti dell’uomo. Il Salmo 118, infine, si recitava mentre si serviva la quarta coppa. Considerando la sua non facile interpretazione, non è il caso di commentare tutti i versetti di questo Salmo, ci limiteremo quindi solo a dire che i versetti 22-23 (sulla pietra del Tempio) sono divenuti fondamentali nella riflessione che Gesù fa sul suo destino (Mt 21,42) dopo la parabola dei vignaioli omicidi, che i versetti 25-26 sono ripresi nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme (Mt 21,9) e che l’espressione ebraica HosiʻAnaʼ, “Deh! Salva”, è divenuta il famoso Osanna, caro anche alla tradizione cristiana. Questa, a grandi linee, fu la prima Pasqua che celebrò il piccolo Gesù insieme alla sua famiglia a Gerusalemme.