In molti hanno gridato allo scandalo sui ritardi di attuazione del PNRR o sulla proposta della Lega di rinunciare alla realizzazione di progetti su cose non prioritariamente necessarie. Ebbene si sono lette poche (se non nessuna) analisi sulle ragioni reali ed ultime di questi ritardi.
Per esempio non si è tenuto conto che nella storica utilizzazione dei fondi europei, rinvenienti dai Piani Operativi Nazionali (PON) e dai Piani Operativi Regionali (POR) la percentuale di spesa di quei fondi nelle regioni più virtuose non ha mai superato il 60%, sicché spesso si è dovuti ricorrere alla “riprogrammazione” oppure alla richiesta di più di una proroga. A cosa poteva servire, ai fini del PNRR, la presa in carico di questo dato? In sede di negoziazione iniziale poteva servire a contrattare termini di realizzazione della spesa più ampi e più adatti alle oggettive e realistiche condizioni delle nostre procedure. Si poteva anche scegliere un plafond meno consistente, magari riducendo la quota a debito e basandosi maggiormente sul “fondo perduto”. Inoltre si doveva effettuare (alla faccia della tanto sbandierata competenza tecnica dei Draghi & Co.) un’attenta e rigorosa analisi per comprendere come mai i fondi europei hanno da sempre raggiunto una percentuale molto bassa di utilizzo, comprenderne le criticità e, sulla presa di coscienza di questi punti di criticità, costruire il Piano nazionale di ripresa e resilienza, cercando quindi di evitare tutti gli errori che hanno caratterizzato l’utilizzo ordinario dei fondi Ue.
Non vi è dubbio che tra queste criticità possa annoverarsi il fatto che, a fronte di un Piano molto generico, fatto solo di schede programmatiche, quale il PNRR approvato dal parlamento, si sia lasciato poi ad una miriade di enti istituzionali e non il compito di progettare, appaltare e realizzare gli innumerevoli interventi, molti dei quali privi di una minima massa critica. Questa frammentazione dei soggetti responsabili dell’utilizzo dei fondi è, ovviamente, alla base anche delle tante e differenti velocità che la realizzazione del Piano registra.
Si è fortemente parcellizzata la spesa, si è ignorata ogni esigenza di unità e integrazione degli interventi per poter aspirare a rimettere in piedi un malato assai grave quale è l’Italia. Accanto a questo “malato grave” troppi “medici” si stanno cimentando con terapie che spesso si rivelano palliativi inefficaci. Non è servita la lezione di ciò che è accaduto con la pandemia in quella che Mario Landolfi ha giustamente definito “la Repubblica di Arlecchino” volendo con questo indicare il ruolo deleterio che il regionalismo accentuato ha giocato nelle tante deficienze e carenze che il nostro sistema sanitario ha evidenziato durante il Covid. Entrando nel merito poi, si sono scelti settori in cui intervenire, e quindi spendere questi fondi (magari quelli presi a prestito e che dobbiamo restituire a tassi di interesse non esiziali) non del tutto prioritari ed essenziali rispetto alle esigenze reali del Paese. Era una formidabile occasione per riammodernare interamente la rete infrastrutturale dell’Italia, riuscendo, tra l’altro, a riequilibrare, il divario tra Meridione e Settentrione d’Italia e questa opportunità rischia di essere sprecata e vanificata. Un solo esempio per tutti: la rete ferroviaria presenta al Sud varie tratte, anche importanti, senza binario raddoppiato o adeguato all’alta velocità, quale occasione migliore per ridurre questo divario? La tratta Bari/Brindisi verso Taranto/Metaponto, Potenza e Salerno/Napoli dovrebbe essere ritenuta strategica per il futuro del sistema portuale italiano poiché metterebbe in connessione l’Adriatico con lo Jonio ed il Tirreno. Ebbene questa tratta, a tutt’oggi, è priva di raddoppio ferroviario e di adeguamento della rete all’Alta Velocità.
Forse è oramai tardi per parlarne, ma quale poteva essere la soluzione per ovviare a queste problematicità? Costituire un’Autorità unica nazionale che doveva provvedere a rilevare i bisogni reali, a programmare gli interventi, a progettarli o affidarne la progettazione e ad appaltarli e monitorarli, sull’esempio e il modello della Cassa per il Mezzogiorno, emendata degli errori che pure all’epoca ci furono. Una possibile alternativa a questa soluzione poteva essere quella di quattro Autorità macroregionali (una per le isole, un’altra per il Sud, una per il Centro e l’ultima per il Nord) cui far rilevare i bisogni dei territori, programmare la spesa, affidare le progettazioni, appaltare i lavori e monitorarli, svincolando queste Autorità, costituite chiamando a raccolta le migliori competenze italiane, da eccessive incombenze ed elefantiache procedure burocratiche. Se ce ne fosse ancora la possibilità, questa sarebbe la via da intraprendere. Speciose, poi, appaiono le accuse dell’opposizione a Giorgia Meloni che non ha approvato in Parlamento questo Piano, che ne ha chiesto sin dalla campagna elettorale la modifica nei tempi e nel merito. Per certi versi è censurabile anche l’atteggiamento della Lega che era al governo e in maggioranza quando il Piano fu approvato e le riserve di oggi avrebbe fatto meglio, forse, a tirarle fuori all’epoca.