Il termine bannitus, da cui direttamente deriva il più diffuso termine di “bandito” e quello di “banditismo” ha, nel sistema giuridico del Regno di Napoli, una precisa connotazione tecnica, derivata dalla prima fase della procedura contumaciale, la pronuncia, cioè, del “bando” quale risulta consegnata in vari Capitoli e nelle Prammatiche del Regno di Napoli e Sicilia. Infatti, nel Regno di Napoli, avuta cognizione di un reato e raccolte sommarie informazioni, il magistrato doveva comunicare questo all’imputato. Ne ordinava così la spedizione, per mezzo di assistenti del tribunale, che dovevano consegnare la citazione, detta appunto ad informandum, nelle mani dell’imputato. Il termine per comparire innanzi al magistrato poteva essere ridotto a pochi mesi o addirittura a giorni. Se l’imputato non si presentava, con speciale decreto si procedeva al bando, con la minaccia della Forgiudica in caso che l’assente fosse rimasto tale per più di un anno.
L’effetto della Forgiudica era di non potersi più difendere in giudizio, di essere dichiarato pubblico nemico, di poter essere impunemente offeso e ucciso, e gli offensori o uccisori di essere premiati, e tutti i suoi beni confiscati. La sentenza di bando era pubblicata in uno specifico albo, che si esponeva in Napoli nella sala della Gran Corte della Vicaria e, per mettere a conoscenza i cittadini di tutti i nomi, ogni sei mesi era gridato nella piazza maggiore della città al popolo, la lista generale dei banditi. Da tale sistema, non solo derivò, appunto, la denominazione di bandito, ma ricevette incremento e sempre più consistenza lo stesso brigantaggio. Infatti, quanti erano colpiti dalla Forgiudica, allontanati dalla parte onesta della società, costretti a vivere di delitti, esposti com’erano e senza difesa alla vendetta di tutti, scorrevano la campagna depredando e uccidendo (cfr. ZENO R., Il procedimento di “bando e forgiudica” nel Regno di Napoli e Sicilia, in Rivista Penale, vol. LXXII, 1910, fasc. 1, pp. 5-21). Contro i banditi, dunque, i governanti mettono in atto un’atrocità spaventosa. Quando il bandito è ucciso in battaglia, oppure giustiziato immediatamente dopo la cattura, c’è l’abitudine di infierire sui corpi, di squartare i cadaveri, di inviare le parti nei luoghi dove ha agito. La testa di solito era infilzata su di un’alta picca perché fosse da monito a tutti. Spesso è messa in atto una politica premiale, perché da sola la repressione più dura non funziona. I parenti sono indotti a tradire o addirittura a uccidere i propri congiunti pur di avere il premio in denaro o di salvare la propria pelle e le proprietà. Si moltiplicano le taglie e la delega a chiunque di uccidere. Chi uccide un bandito libera se stesso o un altro bandito. Non è richiesta la consegna del corpo di un determinato bandito, ma quello di un bandito qualunque. La testa di un “malfattore” diventa un macabro titolo di credito. Mentre con una mano si reprime, con l’altra si premiano la dissociazione e il tradimento. Tra i banditi oltre ad assassini, ladri o rapinatori, ci sono nobili, baroni e signorotti in lotta con il potere regio o con quello locale. Ai banditi, tuttavia, va la simpatia popolare; nessuno parla contro di loro, sono circondati dappertutto da una grande complicità, una omertà diffusa crea una barriera di silenzio attorno a loro. E si crea intorno a loro il mito. Mentre i generali si danno da fare per sterminarli, i banditi si vendicano rinascendo dopo la loro morte e trasformandosi in un esempio da seguire. I banditi prima, i briganti poi, sono stati accompagnati dal fiorire di leggende, ballate, canzoni, racconti, fiabe. Si parla di loro in saggi storici, in documentari televisivi, nei film, persino nei fumetti oltre che nei racconti orali che sono tanti e si continuano a ripetere. Tra i racconti orali ci sono quelli dei cantastorie che colmavano l’assenza di spettacoli nei piccoli centri, nei borghi sperduti, nei cortili delle masserie, che nel tempo la televisione e internet li hanno soppiantati e fatti sparire. Essi arrivavano durante le feste popolari e dei santi patroni, si fermavano nei piazzali, davanti ai santuari, nei luoghi destinati alle fiere e ai mercati, alzavano il telone con le raffigurazioni della storia, mettevano mano a uno strumento musicale (liuto, ribeca, chitarrone, ghironda) o si affidavano alla melodiosità soltanto della loro voce, e raccontavano le loro storie. Alla fine il cantastorie passava con la mano o col berretto teso, ad accogliere qualche offerta in denaro, e cercava di vendere un libretto o un foglietto a stampa dei suoi versi.
Una ballata banditesca imperniata sulla vita di un bandito meridionale in particolare ha attirato la nostra attenzione. Si tratta della “Istoria della vita e morte di Pietro Mancino, capo dei banditi”, che ha come autore il cantastorie cieco Donato Antonio de Martino, scritta nel 1700. Pietro Mancino fu una specie di Francis Drake pugliese, che per conto dei francesi e del Papa fu la spina nel fianco del Regno di Napoli. Anche Pietro Giannone nella sua “Istoria civile del Regno di Napoli” parla di questo bandito. Nato nella prima metà del 1600 a Vico del Gargano, la carriera criminale di Pietro Mancino inizia con l’omicidio di un suo amico per avergli fatto una scortesia. Dopo l’omicidio scappò per non farsi catturare e perciò fu bandito dalla Capitanata. Inizia così la sua vita di scapestrato capo banda al servizio di diversi personaggi potenti ai quali aveva offerto i suoi servigi nell’eseguire e far eseguire lavori sporchi tipo minacce, distruzioni, ricatti e assassinii al seguito di litigi, ottenendo laute ricompense. Egli scorrazzò, insieme alla sua banda, soprattutto nella provincia di Foggia tra Manfredonia, Monte Sant’Angelo e altre località del Gargano, territorio quasi tutto boscoso che doveva conoscere molto bene perché sfuggì per ben venti anni alla caccia che gli era data dalle forze regolari. Per sfuggire alla cattura si recò addirittura a Malta, poi sulla costa slava in Dalmazia e di qui a Barletta dove, poco dopo lo sbarco, mise su “un pugno di quindici compagni di mal razza” e assassinò un suo acerrimo nemico. Fu nominato colonnello della cavalleria sabauda e nel 1636 gli fu affidato il compito di impadronirsi di Foggia e delle notevoli ricchezze della sua Dogana, di Manfredonia e di Monte Sant’Angelo per provocare la caduta del governo spagnolo, a cui darà filo da torcere, ma che si impegnerà al massimo per catturare il bandito. Nel 1637 lo troviamo prima a Torino, dove fu nominato colonnello dai francesi, poi alla corte pontificia con lo stesso grado militare. Dopo una vita errabonda e irrequieta, ancorché efferata per il tanto male fatto, pur ritrovandosi ricco in età avanzata, forse perché ammalato e solo, preso dal rimorso per le sue continue ribalderie, dovette riflettere tanto e per questa considerazione volendosi discolpare e quasi assolversi agli occhi dei suoi contemporanei presagendo la sua morte non lontana, volle spendere il suo “sporco denaro” offrendo in dono ai vichesi e agli ecclesiastici il luogo sacro che è la chiesa di San Giuseppe. Infatti, le notizie riguardanti l’istituzione della congrega dedicata a San Giuseppe, sita nell’antica chiesa omonima posta nel centro storico di Vico del Gargano, si possono ricavare, in particolare, consultando l’interessante descrizione che, sotto forma di diario, gli scrivani al servizio del Cardinale Vincenzo Maria Orsini della diocesi sipontina, è fatta nell’autunno del 1675 durante la sua Santa Visita alle chiese cittadine e campestri vichesi. Tuttavia, si può leggere in questo importante documento, il quale chiarisce molti aspetti dei luoghi sacri di allora, che la chiesa di San Giuseppe era stata ricavata trasformando la casa del famoso bandito vichese Pietro Mancini nell’anno 1648. Infatti, è riferito in latino: “Ecclesia hic ex domo famosi praedonis Petri Mancini donata anno 1648 sub titulo paupertatis ex multo rum elemosynalibus (…)”. Di Pietro Mancino, dunque, non si conosce neanche la data di morte. La sua storia termina con la sua cattura e imbarcato a Viareggio su una galera diretta a Napoli dove lo attende la condanna. È il settembre 1637, di quella galera e di Pietro Mancino non se ne saprà più niente, così la leggenda potrà continuare ad alimentarsi.