E non da oggi. Anche il quarto d’ora di celebrità vissuto con Mario Draghi era dovuto più dal suo standing personale che a un ritrovato protagonismo politico. C’è poco da fare: in un mondo a-polare conti se rappresenti qualcosa, in termini di problemi da risolvere, il che spiega, ad esempio, il ruolo crescente dei paesi baltici da quando c’è il conflitto in Ucraina. Dove potremmo contare e una volta
(ai tempi del governo Gentiloni) contavamo, ovvero nel Mediterraneo in attesa del Consiglio europeo di fine mese non si intravedono
i presupposti di quella svolta che Giorgia Meloni auspica. Svolta resa più urgente dal numero degli arrivi fuori controllo
(60mila finora rispetto ai 26mila dello scorso anno, altro che chiacchiere) e dagli effetti del conflitto tra Putin e la Wagner,
che avrà un riflesso anche in Africa. Il vero paradosso politico è altro. Si pensava, dopo il voto, che l’incognita principale
avrebbe riguardato il fronte esterno, tra le intemerate del Cavaliere russo e il “pacifismo” più putiniano che francescano di Salvini.
Sta accadendo l’opposto: l’allineamento minimo internazionale c’è: è vero, non c’è stata la telefonata di Biden alla premier
durante la crisi russa, ma Crosetto in quelle ore, fortunata coincidenza, era al Pentagono con il segretario alla Difesa Austin.
La criticità vera è tutta sulla politica interna. Ed è certo imputabile al vizio genetico di un governo concepito come un “one woman
show”, dove alla lunga si paga la mediocrità della classe dirigente scelta, come racconta il caso Santanché. Però si paga anche l’attendismo. Perché la protagonista, invece di sciogliere i nodi, rinvia, tentenna, non cambia passo, al dunque si eclissa. Sembra
che la quotidianità la affoghi e le impedisca di guardare lontano. Tutto, ad esempio, lasciava credere che la beatificazione di Berlusconi
come Santo Protettore dell’intero centrodestra sarebbe stata prodromica all’apertura di un cantiere per un grande
partito conservatore che, dando un orizzonte a un mondo senza bussola, avrebbe avuto la funzione di stabilizzare la maggioranza.
E invece, forse per cultura minoritaria, la premier ha scelto di aspettare. Morale: dopo appena una settimana, già si capisce
che sarà un’impresa etero-dirigere quel partito via Tajani. E così, in un quadro più destabilizzato, altro problema. Salvini, che non recita più i
rosari nemmeno con la Wagner a Mosca, ha scelto di giocarsi la partita tutta all’interno, ergendosi a componente populista e sovranista
della maggioranza, nell’anno elettorale: ora col Mes, poi arriveranno i veri fuochi d’artificio sull’immigrazione. Per carità, da
tempo ha abbandonato i sogni di gloria attestandosi sul primum vivere. Ma è insidioso. Più lei tentenna,
più lui trova guazza.