Fu alla scuola media che dovetti iniziare a capire come va il mondo. Fino ad allora avevo avuto una visione fortemente idealizzata della realtà, cresciuta com’ero a pane e dovere, convinta che il bene avrebbe sempre trionfato. Era una specie di epoca interglaciale in cui non c’erano i voti ma i giudizi (corsi e ricorsi storici) e a scrollarmi fu il mio professore di Italiano Angelo Primicerio, le cui lezioni di vita sono rimaste memorabili. Era un Insegnante di quelli straordinari, capace di tenere saldamente una classe di trentuno preadolescenti catturandone l’attenzione con un carisma fuori dal comune. Sapeva alternare sapientemente serietà e comicità, italiano e napoletano, miscelava spiegazioni e interrogazioni senza che ce ne accorgessimo, improvvisava sketch gustosissimi per spiegare il significato di parole nuove e soprattutto aveva il coraggio di assumersi responsabilità che nella scuola di oggi nessuno si accollerebbe. Farci diventare cittadini responsabili era il suo obiettivo, quando tuonava contro le ingiustizie e la camorra e ci leggeva in classe Don Milani e Primo Mazzolari, facendoci imparare a memoria il suo “Ci impegniamo, noi e non gli altri, senza accusare chi non si impegna…” (ma anche passi dai “Promessi Sposi” rimasti per sempre impressi nella memoria, come “Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci…”). Orbene, mi lasciò sbigottita quando lessi il suo giudizio in Italiano sulla scheda di valutazione, un giudizio circostanziato, che debordava dalle cinque o sei righe prestampate, e si concludeva con l’espressione “più che ottimo”. Ricordo la commozione di mia madre: il Professore si era assunto la responsabilità di forzare la grammatica per esprimere quel giudizio. Ero una ragazzina riservata e riflessiva, e non me ne inorgoglii, memore di quando, all’esame di primina, allorché le zie dissero che meritavo un regalo perché avevo avuto tutti dieci, mia madre aveva commentato seccamente che avevo fatto metà del mio dovere. Il più che ottimo ebbe l’effetto di acuire ancor più il mio senso di responsabilità, ma fu ciò che il professore mi disse in seguito a incrinare la visione ideale che avevo della vita. “Devi tirar fuori le unghie”. Queste furono le parole precise. Non le compresi. Mi chiedevo perché e a cosa mi servissero le unghie. Il professore cercava solo di proteggermi, temendo che potessi essere troppo vulnerabile con il mio idealismo in un mondo che stava già sostituendo i valori nei quali eravamo stati educati con il potere del denaro e del successo, con la prepotenza, l’arroganza e la prevaricazione. Sono trascorsi tanti anni, le unghie non le ho mai usate, ma non mi sono mai sentita vulnerabile. La forza che continua a guidarmi affonda semplicemente nel convincimento che gli altri non sono avversari da cui difendersi ma persone con le quali dialogare, con pazienza e fermezza. Oggi che i nostri ragazzi vivono in un clima di competizione esagerata, di struggle for life, di guerra perenne, al punto da somatizzare ansia e malessere, credo che il compito di noi adulti, genitori, insegnanti, educatori, sia quello di educare alla cooperazione, alla relazione, al confronto delle idee, alla collaborazione, alla convivialità delle differenze. Credo che la società dell’arroganza e delle unghie affilate abbia ampiamente dimostrato il suo fallimento e che sia necessario tornare ai valori e agli ideali, assumendoci personalmente la responsabilità di ciò che, in scienza e coscienza, riconosciamo come “più che ottimo”.
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