I maschi violenti non si vedono tali ed in questi casi c’è sempre un problema con il loro femminile interno che viene visto come angariante.
È corretto parlare di una “questione maschile” e di una mascolinità messa in discussione dal cambiamento dello status quo che genera tale fenomeno?
In questo senso il femminicidio è destinato a diventare un problema cronico come in Messico se non vengono presi provvedimenti a livello politico?
~Tratto da un articolo di Christian Raimo su “Internazionale”
Da questa premessa partono le mie considerazioni sulla strutturalita’ della violenza.
Quando parliamo di violenza tendiamo a vedere solo le donne morte, ma la violenza per chi la subisce e non ne muore procura problemi a vita.
Non ho dati sulle invalide permanenti tra le più famose Chiara Insidioso Monda o Filomena Lamberti.
Ma chi non muore?
Chi ha subito violenze dal proprio partner:
nel 35,1% dei casi hanno sofferto di depressione a seguito dei fatti subiti manifestano perdita di fiducia e autostima (48,5%)
hanno una sensazione di impotenza (44,5%)
soffrono di disturbi del sonno (41,0%)
soffrono di stati d’ansia (36,9%)
hanno difficoltà di concentrazione (23,7%)
soffrono di dolori ricorrenti in diverse parti del corpo (18,5%)
hanno difficoltà a gestire i figli (14,2%)
manifestano idee di suicidio e autolesionismo (12,1%)
Il disvelamento di una situazione di violenza particolarmente difficile ed è ostacolato da numerose barriere. Secondo l’indagine le indagini Istat il 75% delle donne picchiate, identificate per la prima volta in un contesto medico, andrà avanti nel sopportare abusi.
Significa che possiamo inferire che tutti gli uomini sono violenti o stalker? No. Che non ci sono casi in cui sono le donne a maltrattare gli uomini? No. Che non possono esserci casi di errore o malafede? Di nuovo no: possono esserci; ma statisticamente oggi abbiamo il dovere di ammettere che esiste una violenza di genere legata al voler limitare la libertà di movimento e pensiero della propria compagna/moglie/ex compagna/ex moglie, che ha dimensioni molto maggiori e origini complesse rispetto a quanto accade agli uomini che denunciano maltrattamenti e violenze da parte delle donne. La cultura repressiva nei confronti delle donne “in quanto donne” è ancora estremamente presente.
In sintesi l’80,5% delle donne uccise è vittima di una persona che conosce: nel 43,9% dei casi è un partner, nel 28,5% un parente (inclusi figli e genitori) e nell’8,1% un’altra persona conosciuta. La situazione è molto diversa per gli uomini: nel 32,1% dei casi sono stati uccisi da una persona che non conoscevano: la quota di uomini uccisi da conoscenti è pari a solo il 24,8%, un terzo del corrispettivo valore delle donne.
La realtà è comunque più complessa delle statistiche, e la “violenza” si dice in molti modi. È sufficiente sintonizzarsi ogni mercoledì sera su Chi l’Ha Visto per farsi un’idea della “realtà delle famiglie italiane”. Ci sono donne che subiscono violenza e che non hanno la forza di denunciare.
La causa è della società che banaliza e normalizza la violenza maschile come un problema individuale e non strutturale.
La negazione della violenza poi parte spessimo dall’ equiparazione. Per prevenire il fenomeno bisogna prima riconoscerlo, l’equiparazione è una forma subdola di negazionismo perché non nega apertamente, ma banalizza il fenomeno della violenza maschile.